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CAPITOLO 1 IL BAMBINO CHE È SOPRAVVISSUTO
Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di affermare di essere perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.
Il signor Dursley era direttore di una ditta di nome Grunnings, che fabbricava trapani. Era un uomo corpulento, nerboruto, quasi senza collo e con un grosso paio di baffi. La signora Dursley era magra, bionda e con un collo quasi due volte più lungo del normale, il che le tornava assai utile, dato che passava gran parte del tempo ad allungarlo oltre la siepe del giardino per spiare i vicini. I Dursley avevano un figlioletto di nome Dudley e secondo loro non esisteva al mondo un bambino più bello.
Possedevano tutto quel che si poteva desiderare, ma avevano anche un segreto, e il loro più grande timore era che qualcuno potesse scoprirlo. Non credevano di poter sopportare che qualcuno venisse a sapere dei Potter. La signora Potter era la sorella della signora Dursley, ma non si vedevano da anni. Anzi, la signora Dursley faceva addirittura finta di non avere sorelle, perché la signora Potter e quel buono a nulla del marito non avrebbero potuto essere più diversi da loro di così. I Dursley rabbrividivano al solo pensiero di quel che avrebbero detto i vicini se i Potter si fossero fatti vedere nei paraggi. Sapevano che i Potter avevano anche loro un figlio piccolo, ma non lo avevano mai visto. E questa era un’altra buona ragione per tenere i Potter a distanza: non volevano che Dudley avesse a che fare con un bambino di quel genere.
Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e nuvoloso in cui inizia la nostra storia, nel cielo coperto non c’era nulla che facesse presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il Paese. Il signor Dursley scelse canticchiando la cravatta più anonima del suo guardaroba e la signora Dursley continuò a chiacchierare ininterrottamente, mentre con grande sforzo costringeva sul seggiolone Dudley che urlava a squarciagola.
Nessuno notò il grosso gufo bruno che passò con un frullo d’ali davanti alla finestra.
Alle otto e mezzo il signor Dursley prese la sua valigetta ventiquattrore, sfiorò con le labbra la guancia della moglie e tentò di dare un bacio a Dudley, ma lo mancò perché, in quel momento, in preda a un furioso capriccio, il bambino stava scagliando i suoi cereali contro il muro. «Piccolo monello!» commentò ridendo il signor Dursley mentre usciva di casa. Salì in macchina e percorse in retromarcia il vialetto del numero 4.
Fu all’angolo della strada che notò le prime avvisaglie di qualcosa di strano: un gatto che leggeva una mappa. Per un attimo, il signor Dursley non si rese conto di quel che aveva visto; poi girò di scatto la testa e guardò di nuovo. In effetti c’era un gatto soriano all’angolo di Privet Drive, ma di mappe nemmeno l’ombra. Ma che diavolo aveva per la testa? La luce doveva avergli giocato qualche brutto tiro. Si stropicciò gli occhi e fissò il gatto, che gli ricambiò l’occhiata. Mentre l’auto girava l’angolo e percorreva un tratto di strada, il signor Dursley tenne d’occhio il gatto nello specchietto retrovisore. In quel momento il felino stava leggendo il cartello stradale che indicava Privet Drive. No, lo stava guardando; i gatti non sanno leggere le mappe e neanche i cartelli stradali. Il signor Dursley si riscosse da quei pensieri e allontanò il gatto dalla mente. Mentre si dirigeva in città, non pensò ad altro che al grosso ordine di trapani che sperava di ricevere quel giorno.
Ma una volta giunto alla periferia della città, avvenne qualcos’altro che gli fece dimenticare i trapani. Bloccato nel solito ingorgo del mattino, non poté fare a meno di notare che in giro c’erano un sacco di persone vestite in modo strano. Gente con indosso dei mantelli. Il signor Dursley non sopportava le persone che si vestivano in modo stravagante: bastava vedere come si conciavano certi giovani! Immaginò che si trattasse di qualche stupidissima nuova moda. Mentre tamburellava con le dita sul volante, lo sguardo gli cadde su un capannello di quegli strampalati, vicinissimo a lui. Si stavano bisbigliando qualcosa tutti eccitati. Il signor Dursley sentì montare la rabbia nel constatare che un paio di loro erano tutt’altro che giovani. Ma che roba! Quello lì doveva essere più anziano di lui e portava un mantello verde smeraldo! Che faccia tosta! Poi però pensò che potesse trattarsi di qualche sciocca trovata. Ma certo! Era gente che faceva una colletta per qualche motivo. Sì, doveva essere proprio così. Poi, il traffico riprese a scorrere e alcuni minuti più tardi il signor Dursley giunse al parcheggio della Grunnings con la mente di nuovo tutta presa dai trapani.
Nel suo ufficio, al nono piano, il signor Dursley sedeva sempre con la schiena rivolta alla finestra. Se così non fosse stato, quella mattina avrebbe avuto ancor più difficoltà a concentrarsi sui suoi trapani. Lui non vide i gufi volare a sciami in pieno giorno, ma la gente per strada sì. E li additavano, a bocca aperta, guardandoli passare a tutta velocità, uno dopo l’altro sopra le loro teste. La maggior parte di quelle persone non aveva mai visto un gufo neanche di notte. Ciononostante, il signor Dursley ebbe il privilegio di una mattinata perfettamente normale, del tutto immune dai gufi. Uscì dai gangheri con cinque persone diverse. Fece molte telefonate importanti e qualche altro uriaccio. Fino all’ora di pranzo, il suo umore si mantenne ottimo. A quel punto decise che, per sgranchirsi le gambe, avrebbe attraversato la strada per andare a comprarsi una ciambella dal fornaio di fronte.
Aveva completamente dimenticato le persone con il mantello fino a che non ne superò un gruppetto proprio accanto al fornaio. Mentre passava, scoccò loro un’occhiata furente. Non sapeva perché, ma lo mettevano a disagio. Anche queste bisbigliavano tutte eccitate, ma di cassette per raccogliere le offerte non ne vide neanche una. Fu passando loro accanto di ritorno dal fornaio, con un’enorme ciambella in un sacchetto, che colse qualcosa di quello che stavano dicendo.
«I Potter, proprio così, è quel che ho sentito…»
«…già, il figlio, Harry…»
Il signor Dursley si fermò di colpo. Fu invaso dalla paura. Si voltò a guardare il capannello come se volesse dire qualcosa, ma poi ci ripensò.
Attraversò la strada precipitosamente e raggiunse in tutta fretta il suo ufficio; intimò alla segretaria di non disturbarlo per nessuna ragione, afferrò il telefono, e aveva quasi finito di fare il numero di casa quando cambiò idea. Mise giù il ricevitore, si lisciò i baffi, pensando… no, era stato uno stupido. Potter non era poi un nome così insolito. Era certo che esistessero miriadi di persone che si chiamavano Potter e avevano un figlio di nome Harry. E poi, ora che ci pensava, non era neanche tanto sicuro che suo nipote si chiamasse proprio Harry. Del resto, non lo aveva neanche mai visto. Avrebbe potuto chiamarsi Harvey. O Harold. Non c’era ragione di impensierire la signora Dursley; se la prendeva tanto ogni volta che le si parlava della sorella! E non poteva darle torto: se l’avesse avuta lui, una sorella così… Tuttavia, quella gente avvolta nei mantelli…
Quel pomeriggio trovò molto più difficile concentrarsi sui suoi trapani e quando lasciò l’ufficio alle cinque in punto era ancora talmente assorto che, appena varcata la soglia del palazzo, andò a sbattere dritto dritto contro qualcuno.
«Scusi» bofonchiò, mentre il poveretto - un uomo anziano e mingherlino - inciampava e per poco non finiva lungo disteso.
Ci volle qualche secondo perché il signor Dursley si rendesse conto che l’uomo indossava un mantello viola. L’ometto però non sembrava per niente offeso dal fatto di essere stato quasi scaraventato a terra. Al contrario, un largo sorriso gli illuminò il volto e con una vocina stridula che destò l’attenzione dei passanti disse: «Non si scusi, mio caro signore, perché oggi non c’è niente che possa turbarmi! Si rallegri, perché Lei-Sa-Chi finalmente se n’è andato! Anche i Babbani come lei dovrebbero festeggiare questo felice, felicissimo giorno!»
A quel punto, il vecchietto abbracciò il signor Dursley cingendolo alla vita e poi si allontanò.
Il signor Dursley rimase lì impalato. Era stato abbracciato da un perfetto sconosciuto. Poi pensò che quel tale lo aveva chiamato ‘Babbano’, qualsiasi cosa volesse dire. Era esterrefatto. Si affrettò a raggiungere la macchina e partì alla volta di casa, sperando di aver lavorato di fantasia, cosa che non aveva mai sperato prima perché non approvava le fantasie.
Non appena ebbe imboccato il vialetto del numero 4 di Privet Drive, la prima cosa che scorse — e che certo non contribuì a migliorare il suo umore - fu il gatto soriano che aveva visto la mattina. Seduto sul muro di cinta del giardino. Era assolutamente certo che fosse lo stesso: i segni intorno agli occhi erano identici.
«Sciò!» gli gridò il signor Dursley.
Il gatto non si mosse. Si limitò a fissarlo con sguardo severo. Il signor Dursley si chiese se normalmente i gatti si comportassero così. Cercando di riprendersi, entrò in casa. Era ancora deciso a non dire niente alla moglie.
La signora Dursley aveva passato una buona giornata, in tutto e per tutto normale. A cena, gli raccontò per filo e per segno i guai che la signora Della-Porta-Accanto aveva con la figlia, e poi che Dudley aveva imparato una nuova frase: «Non volio!» Il signor Dursley cercò di comportarsi normalmente. Una volta messo a letto Dudley, se ne andò nel soggiorno appena in tempo per sentire l’ultimo telegiornale.
«E infine, da tutte le postazioni gli avvistatori di uccelli riferiscono che oggi, sull’intero territorio nazionale, i gufi hanno manifestato un comportamento molto insolito. Sebbene normalmente escano di notte a caccia di prede e ben di rado vengano avvistati di giorno, fin dall’alba sono stati segnalati centinaia di gufi che volavano in tutte le direzioni. Gli esperti non sanno spiegare perché, tutt’a un tratto, i gufi abbiano modificato il loro ritmo sonno/veglia». Lo speaker si lasciò scappare una risatina. «Molto misterioso. E ora, la parola a Jim McGuffin per le previsioni del tempo. Si prevedono altri scrosci di gufi, stanotte, Jim?»
«Francamente, Ted» rispose il meteorologo, «su questo non so dirti niente, ma quest’oggi non sono stati soltanto i gufi a comportarsi in modo strano. Gli osservatori di località distanti fra loro come il Kent, lo Yorkshire e Dundee mi hanno telefonato per informarmi che, al posto della pioggia che avevo promesso ieri, hanno avuto un diluvio di stelle cadenti. Chissà? Forse si è festeggiata in anticipo la Notte dei falò. Ma, gente, la Notte dei falò è soltanto tra una settimana! Comunque, posso assicurare che stanotte pioverà».
Il signor Dursley rimase seduto in poltrona, come paralizzato. Stelle cadenti in tutta la Gran Bretagna? Gufi che volano di giorno? Gente misteriosa che si aggira dappertutto avvolta in mantelli? E quelle voci, quei bisbigli sui Potter…
La signora Dursley entrò in soggiorno portando due tazze di tè. Non c’era niente da fare: doveva dirle qualcosa. Si schiarì nervosamente la voce. «Ehm, Petunia, mia cara… non è che per caso hai sentito tua sorella, ultimamente?»
Come aveva previsto, la signora Dursley assunse un’aria esterrefatta e adirata. In fin dei conti, erano abituati a far finta che non avesse una sorella.
«No» rispose seccamente. «Perché?»
«Mah, non so… al telegiornale hanno detto cose strane» bofonchiò il signor Dursley. «Gufi… stelle cadenti… e oggi, in città, un sacco di gente strampalata…»
«E allora?» sbottò la signora Dursley.
«Niente, pensavo soltanto… forse… qualcosa che avesse a che fare con… hai capito, no?… con lei e i suoi».
La signora Dursley sorseggiò il tè a labbra strette. Il signor Dursley si chiedeva intanto se avrebbe mai osato dirle di aver sentito pronunciare il nome ‘Potter’. Decise che non avrebbe osato. E invece, con il tono più naturale che gli riuscì di trovare, disse: «Il figlio… dovrebbe avere la stessa età di Dudley, giusto?»
«Credo di sì» rispose la signora Dursley, rigida come un manico di scopa.
«E com’è che si chiama? Howard, no?»
«Harry! Che poi è un nome terribilmente ordinario, se proprio lo vuoi sapere».
«Eh già» disse il signor Dursley con un tuffo al cuore. «Sono proprio d’accordo».
Salirono in camera per andare a dormire senza più dire una parola sull’argomento. Mentre la moglie era in bagno, il signor Dursley si avvicinò guardingo alla finestra della camera da letto e sbirciò fuori, nel giardino. Il gatto era ancora lì. Stava scrutando Privet Drive, come se aspettasse qualcosa.
La sua fantasia galoppava troppo? Tutto questo poteva avere qualcosa a che fare con i Potter? Se sì… cioè, se veniva fuori che loro erano parenti di una coppia di… be’, non credeva proprio di poterlo sopportare.
Si misero a letto. Lei si addormentò subito, ma lui rimase lì steso, con gli occhi sbarrati, a rimuginare. L’ultimo, confortante pensiero prima di addormentarsi fu che, se anche i Potter avevano veramente qualcosa a che vedere con quella faccenda, non era affatto detto che dovessero farsi vivi con lui e sua moglie. I Potter sapevano molto bene quel che lui e Petunia pensavano di loro e di quelli della loro risma… Non vedeva proprio come potessero venire coinvolti, di qualsiasi cosa si trattasse - e qui sbadigliò e si girò dall’altra parte - la cosa non poteva riguardarli…
Ma si sbagliava di grosso.
Se il signor Dursley era scivolato in un sonno agitato, il gatto, seduto sul muretto di fuori, non dava alcun segno di aver sonno. Sedeva immobile come una statua, con gli occhi fissi e senza batter ciglio, all’angolo opposto di Privet Drive. E non ebbe il minimo soprassalto neanche quando, nella strada accanto, la portiera di una macchina sbatté forte, né quando due gufi gli sfrecciarono sopra la testa. Dovette farsi quasi mezzanotte prima che il gatto facesse il minimo movimento.
Un uomo apparve all’angolo della strada che il gatto stava tenendo d’occhio; ma apparve così all’improvviso e silenziosamente che si sarebbe detto fosse spuntato direttamente dal terreno. La coda del gatto ebbe un guizzo e gli occhi divennero due fessure.
In Privet Drive non s’era mai visto niente di simile. Era alto, magro e molto vecchio, a giudicare dall’argento dei capelli e della barba, talmente lunghi che li teneva infilati nella cintura. Indossava una tunica, un mantello color porpora che strusciava per terra e stivali con i tacchi alti e le fibbie. Dietro gli occhiali a mezzaluna aveva occhi azzurro chiaro, luminosi e scintillanti, e il naso era molto lungo e ricurvo, come se l’avesse rotto almeno un paio di volte. L’uomo si chiamava Albus Silente.
Albus Silente non sembrava rendersi conto di essere appena arrivato in una strada dove tutto, dal suo nome ai suoi stivali, risultava sgradito. Si dava un gran da fare a rovistare sotto il mantello, in cerca di qualcosa. Sembrò invece rendersi conto di essere osservato, perché all’improvviso guardò il gatto, che lo stava ancora fissando dall’estremità opposta della strada. Per qualche ignota ragione, la vista del gatto sembrò divertirlo. Ridacchiò tra sé borbottando: «Avrei dovuto immaginarlo».
Aveva trovato quel che stava cercando nella tasca interna del mantello. Sembrava un accendino d’argento. Aprì il cappuccio, lo sollevò in aria e lo fece scattare. Il lampione più vicino si fulminò con un piccolo schiocco. L’uomo lo fece scattare di nuovo, e questa volta si fulminò il lampione appresso. Dodici volte fece funzionare quel suo ‘spegnino’, fino a che l’unica illuminazione rimasta in tutta la strada furono due capocchie di spillo in lontananza: gli occhi del gatto che lo fissavano. Se in quel momento qualcuno - perfino quell’occhio di lince del signor Dursley — avesse guardato fuori dalla finestra, non sarebbe riuscito a vedere niente di quel che stava accadendo in strada. Silente ripose nuovamente il suo spegnino nella tasca del mantello e si incamminò verso il numero 4 di Privet Drive, dove si mise a sedere sul muretto, accanto al gatto. Non lo guardò, ma dopo un attimo gli rivolse la parola.
«Che combinazione! Anche lei qui, professoressa McGonagall?»
Si voltò con un sorriso verso il soriano, ma questo era scomparso. Al suo posto, davanti a lui, c’era una donna dall’aspetto piuttosto severo, che portava un paio di occhiali squadrati di forma identica ai segni che il gatto aveva intorno agli occhi. Anche lei indossava un mantello, ma color smeraldo. I capelli neri erano raccolti in uno chignon. Aveva l’aria decisamente scombussolata.
«Come faceva a sapere che ero io?» chiese.
«Perché, mia cara professoressa, non ho mai visto un gatto seduto in una posa così rigida».
«Anche lei sarebbe rigido se fosse rimasto seduto tutto il giorno su un muretto di mattoni» lo rimbeccò la professoressa McGonagall.
«Tutto il giorno? Quando invece avrebbe potuto festeggiare? Venendo qui mi sono imbattuto in una decina e più di feste e banchetti».
La professoressa McGonagall tirò su sdegnosamente col naso.
«Eh già, stanno proprio tutti festeggiando» disse con tono impaziente. «Ci si sarebbe potuti aspettare che fossero un po’ più prudenti, macché… anche i Babbani hanno notato che sta succedendo qualcosa. Lo hanno detto ai loro telegiornali». E così dicendo si voltò verso la finestra buia del soggiorno dei Dursley. «L’ho sentito personalmente. Stormi di gufi… stelle cadenti… Be’, non sono mica del tutto stupidi. Prima o poi dovevano notare qualcosa. Stelle cadenti nel Kent… Ci scommetto che è stato Dedalus Diggle. È sempre stato un po’ svitato».
«Non gli si può dar torto» disse Silente con dolcezza. «Per undici anni abbiamo avuto ben poco da festeggiare».
«Lo so, lo so» disse la professoressa McGonagall in tono irritato. «Ma non è una buona ragione per perdere la testa. Stanno commettendo una vera imprudenza a girare per la strada in pieno giorno, senza neanche vestirsi da Babbani, scambiandosi indiscrezioni».
A quel punto, lanciò a Silente un’occhiata obliqua e penetrante, sperando che lui dicesse qualcosa; ma non fu così. Allora continuò: «Sarebbe un bel guaio se, proprio il giorno in cui sembra che Lei-Sa-Chi sia finalmente scomparso, i Babbani dovessero venire a sapere di noi. Ma siamo proprio sicuri che se ne sia andato, Silente?»
«Sembra proprio di sì» rispose questi. «Dobbiamo essere molto grati. Le andrebbe una Frizlemon?»
«Una che?»
«Una Frizlemon. È una caramella dei Babbani: io ne vado matto».
«No grazie» rispose freddamente la professoressa McGonagall, come a voler dire che non era il momento adatto per le caramelle. «Come dicevo, anche se Lei-Sa-Chi se ne è veramente andato…»
«Mia cara professoressa, una persona di buonsenso come lei potrebbe decidersi a chiamarlo anche per nome! Tutte queste allusioni a ‘Lei-Sa-Chi’ sono una vera stupidaggine… Sono undici anni che cerco di convincere la gente a chiamarlo col suo vero nome:Voldemort». La professoressa McGonagall trasalì, ma Silente, che era impegnato a separare due caramelle che si erano incollate, sembrò non farvi caso. «Crea tanta di quella confusione continuare a dire ‘Lei-Sa-Chi’. Non ho mai capito per quale ragione si debba avere tanta paura di pronunciare il nome di Voldemort».
«Io lo so bene» disse la professoressa McGonagall, in tono a metà fra l’esasperato e l’ammirato. «Ma per lei è diverso. Lo sanno tutti che lei è il solo di cui Lei-Sa… oh, d’accordo: Voldemort… aveva paura».
«Lei mi lusinga» disse Silente con calma. «Voldemort aveva poteri che io non avrò mai».
«Soltanto perché lei è troppo… troppo nobile per usarli».
«Meno male che è buio. Non arrossivo così da quella volta che Madame Pomfrey mi disse quanto le piacevano i miei nuovi paraorecchi».
La professoressa McGonagall scoccò a Silente un’occhiata penetrante, poi disse: «I gufi sono niente in confronto alle voci che sono state messe in giro. Sa che cosa dicono tutti? Sul perché è scomparso? Su quel che l’ha fermato una buona volta?»
Sembrava che la professoressa McGonagall fosse giunta al punto che più le premeva discutere, la vera ragione per cui era rimasta in attesa tutto il giorno su quel muretto freddo e duro, perché mai — né da gatto né da donna - aveva fissato Silente con uno sguardo così intenso. Era chiaro che qualsiasi cosa ‘tutti’ mormorassero, lei non ci avrebbe creduto sin quando Silente non le avesse detto che era vero. Ma lui era occupato a scegliere un’altra Frizlemon e non rispose.
«Quel che vanno dicendo» incalzò lei, «è che la notte scorsa Voldemort è spuntato fuori a Godric’s Hollow. È andato a trovare i Potter. Corre voce che Lily e James Potter siano… siano… insomma, siano morti».
Silente annuì silenziosamente. La professoressa McGonagall ebbe un sussulto.
«Lily e James… Non posso crederci… Non volevo crederci… Oh, Albus…»
Silente allungò la mano e le diede un colpetto sulla spalla. «Lo so… lo so…» disse gravemente.
La McGonagall proseguì con voce tremante: «E non è tutto. Dicono che ha anche cercato di uccidere il figlio dei Potter, Harry. Ma che… non c’è riuscito. Quel piccino, non è riuscito a ucciderlo. Nessuno sa né come né perché, ma dicono che quando Voldemort non ce l’ha fatta a uccidere Harry Potter, in qualche modo il suo potere è venuto meno… ed è per questo che se n’è andato».
Silente annuì triste.
«È… è vero?» balbettò la professoressa McGonagall. «Dopo tutto quel che ha fatto… dopo tutti quelli che ha ammazzato… non è riuscito a uccidere un bambino indifeso? È strabiliante… di tutte le cose che avrebbero potuto fermarlo… Ma in nome del cielo, come ha fatto Harry a sopravvivere?»
«Possiamo solo fare congetture» disse Silente. «Forse non lo sapremo mai».
La professoressa McGonagall tirò fuori un fazzoletto di trina e si asciugò le lacrime dietro gli occhiali. Con un profondo sospiro, Silente estrasse dalla tasca un orologio d’oro e lo esaminò. Era un orologio molto strano. Aveva dodici lancette, ma al posto dei numeri c’erano alcuni piccoli pianeti che si muovevano lungo il bordo del quadrante. Di certo Silente lo sapeva leggere, perché lo ripose di nuovo nella tasca e disse: «Hagrid è in ritardo. A proposito, suppongo sia stato lui a dirle che sarei venuto qui».
«Sì» rispose la McGonagall, «anche se non credo che lei mi dirà perché mai, di tanti posti, abbia scelto proprio questo».
«Sono venuto a portare Harry dai suoi zii. Sono gli unici parenti che gli rimangono».
«Non vorrà mica dire… Non saranno mica quei due che abitano lì!» esclamò la McGonagall balzando in piedi e indicando il numero 4. «Silente… non può farlo! È tutto il giorno che li osservo. Non avrebbe potuto trovare persone più diverse da noi. E poi quel bambino che hanno… l’ho visto prendere a calci sua madre per tutta la strada, urlando che voleva le caramelle! Harry Potter… venire ad abitare qui?»
«È il posto migliore per lui» disse Silente con fermezza. «La zia e lo zio potranno spiegargli tutto quando sarà più grande. Ho scritto loro una lettera».
«Una lettera?» gli fece eco la McGonagall con un filo di voce, tornando a sedersi sul muretto. «Ma davvero, Silente, crede di poter spiegare tutto questo per lettera? Questa gente non capirà mai Harry. Lui diventerà famoso… leggendario! Non mi stupirebbe se in futuro la giornata di oggi venisse designata come l’Harry Potter Day. Si scriveranno volumi su di lui, tutti i bambini del nostro mondo conosceranno il suo nome!»
«Proprio così» disse Silente fissandola tutto serio da sopra gli occhiali a mezzaluna. «Ce ne sarebbe abbastanza per far girare la testa a qualsiasi ragazzo. Famoso prima ancora di camminare e di parlare! Famoso per qualcosa di cui non avrà conservato neanche il ricordo! Non riesce a capire quanto starà meglio, se crescerà lontano da tutto questo fino al giorno in cui sarà pronto per reggerlo?»
La professoressa McGonagall aprì bocca per rispondere, poi cambiò idea, deglutì e disse: «Sì… sì, lei ha ragione, naturalmente. Ma in che modo arriverà qui il bambino?»
D’un tratto guardò il mantello di Silente come se pensasse che Harry potesse essere nascosto lì sotto.
«Lo porterà Hagrid».
«E a lei pare… saggio… affidare a Hagrid un compito tanto importante?»
«Affiderei a Hagrid la mia stessa vita» disse Silente.
«Non dico che non abbia cuore» dovette ammettere la McGonagall, «ma non può negare che sia uno sventato. Tende a… Ma cosa è stato?»
Il silenzio che li circondava era stato lacerato da un rombo cupo. Mentre Silente e la McGonagall percorrevano con lo sguardo la strada per vedere se si avvicinassero dei fari, il rumore si fece sempre più forte, fino a diventare un boato. Entrambi levarono lo sguardo al cielo e dall’aria piovve una gigantesca motocicletta che atterrò sull’asfalto proprio davanti a loro.
Pur colossale com’era, la moto sembrava niente a confronto con l’uomo che la inforcava. Era alto circa due volte un uomo normale e almeno cinque volte più grosso. Sembrava semplicemente troppo per essere vero, e aveva un aspetto terribilmente selvaggio:lunghe ciocche di ispidi capelli neri e una folta barba gli nascondevano gran parte del volto; ogni mano era grande come il coperchio di un bidone dei rifiuti e i piedi, che calzavano stivali di cuoio, sembravano due piccoli delfìni. Tra le braccia immense e muscolose reggeva un fagotto di coperte.
«Hagrid!» esclamò Silente sollevato. «Finalmente! Ma dove hai preso quella motocicletta?»
«Ce l’ho in prestito, professor Silente, signore» e così dicendo, il gigante scese con circospezione dalla moto. «Me l’ha data il giovane Sirius Black. Lui ce l’ho qui, signore».
«Ci sono stati problemi?»
«Nossignore; la casa era distrutta, diciamo, ma io sono riuscito a tirarlo fuori prima che i Babbani cominciassero a ficcare il naso. Si è addormentato mentre volavamo su Bristol».
Silente e la McGonagall si chinarono sul fagotto. Dentro, appena visibile, c’era un bambino profondamente addormentato. Sotto il ciuffo di capelli corvini che gli ricadeva sulla fronte, scorsero il segno di un taglio dalla forma bizzarra, simile a una saetta.
«È qui che…» chiese in un bisbiglio la professoressa McGonagall.
«Sì» rispose Silente. «Questa cicatrice se la terrà per sempre».
«E lei non può fare qualcosa, Silente?»
«Anche se potessi, non lo farei. Le cicatrici possono tornare utili. Anch’io ne ho una, sopra il ginocchio sinistro, che è una piantina perfetta della metropolitana di Londra. Bene… Dammelo, Hagrid; vediamo di concludere».
Silente prese Harry tra le braccia e si voltò verso la casa dei Dursley.
«Posso… posso fargli un salutino, signore?» chiese Hagrid.
Chinò la grossa e ispida testa su Harry e gli diede un bacio rasposo per via di tutta quella barba. Poi, d’un tratto, ululò come un cane ferito.
«Shhh!» sibilò la McGonagall. «Sveglierai i Babbani!»
«S-s-scusatemi…» singhiozzò Hagrid tirando fuori un immenso fazzoletto a pallini e seppellendoci il viso dentro, «ma proprio n-n-non ce la faccio… Lily e James morti… e il povero piccolo Harry che se ne va a vivere coi Babbani…»
«Sì, certo, è molto triste, ma vedi di controllarti, Hagrid, o ci scopriranno» sussurrò la McGonagall battendogli con cautela un colpetto sul braccio mentre Silente, scavalcando il basso muretto del giardino, si avviava verso la porta d’ingresso. Depose dolcemente Harry sul gradino, tirò fuori dal mantello una lettera, l’infilò tra le coperte che avvolgevano Harry e tornò verso gli altri due. Per un lungo minuto i tre rimasero lì a guardare quel fagottino; Hagrid era scosso dai singhiozzi, la professoressa McGonagall non faceva che battere le palpebre, e lo scintillio che normalmente emanava dagli occhi di Silente sembrava svanito.
«Be’» disse infine Silente, «ecco fatto. Non c’è più ragione di restare qui. Tanto vale che andiamo a prender parte ai festeggiamenti».
«Già» disse Hagrid con voce soffocata, «allora io porto via la moto. ’Notte, professoressa McGonagall. Professor Silente, signore».
Asciugandosi gli occhi inondati di lacrime con la manica della giacca, Hagrid si rimise a cavalcioni della motocicletta e accese il motore; si sollevò in aria con un rombo e sparì nella notte.
«Penso che ci rivedremo presto, professoressa McGonagall» disse Silente facendole un cenno col capo. Per tutta risposta, lei si soffiò il naso.
Silente si voltò e si avviò lungo la strada. Giunto all’angolo, si fermò ed estrasse il suo spegnino d’argento. Uno scatto, e dodici sfere luminose si riaccesero di colpo nei lampioni, illuminando Privet Drive di un bagliore aranciato. In quel chiarore vide un gatto soriano che se la svignava dietro l’angolo all’altro capo della strada. Da quella distanza scorgeva appena il mucchietto di coperte sul gradino del numero 4.
«Buona fortuna, Harry» mormorò. Poi girò sui tacchi e, con un fruscio del mantello, sparì.
Una lieve brezza scompigliava le siepi ben potate di Privet Drive, che riposava, ordinata e silenziosa, sotto il cielo nero come l’inchiostro. L’ultimo posto dove ci si sarebbe aspettati di veder accadere cose stupefacenti. Sotto le sue coperte, Harry Potter si girò dall’altra parte senza svegliarsi. Una manina si richiuse sulla lettera che aveva accanto e lui continuò a dormire, senza sapere che era speciale, senza sapere che era famoso, senza sapere che di lì a qualche ora sarebbe stato svegliato dall’urlo della signora Dursley che apriva la porta di casa per mettere fuori le bottiglie del latte, né che le settimane successive le avrebbe trascorse a farsi riempire di spintoni e pizzicotti dal cugino Dudley… Non poteva sapere che, in quello stesso istante, da un capo all’altro del Paese, c’erano persone che si riunivano in segreto e levavano i calici per brindare «a Harry Potter, il bambino che è sopravvissuto».
CAPITOLO 2 VETRI CHE SCOMPAIONO
Erano passati quasi dieci anni da quando i Dursley si erano svegliati una mattina e avevano trovato il nipote sul gradino davanti alla porta di casa, ma Privet Drive non era cambiata affatto. Il sole sorgeva sugli stessi giardinetti ben tenuti e illuminava il numero 4 d’ottone sulla porta dei Dursley; si insinuava nel loro soggiorno, che era pressoché identico a quella sera in cui il signor Dursley aveva visto al telegiornale il fatidico servizio sui gufi. Soltanto le fotografie sulla mensola del caminetto rivelavano quanto tempo fosse passato in realtà. Dieci anni prima c’era un’infinità di fotografie di quello che sembrava un grosso pallone da spiaggia rosa, con indosso berrettini col pompon di vari colori. Ma Dudley Dursley non era più un lattante e ora le fotografie ritraevano un bambinone biondo in sella alla sua prima bicicletta, sulle giostre, che giocava al computer col padre o che si faceva abbracciare e baciare dalla madre. Nulla, in quella stanza, suggeriva che in casa vivesse anche un altro bambino.
Eppure, Harry Potter abitava ancora lì; in quel momento dormiva, ma non sarebbe stato per molto. Zia Petunia era sveglia e la sua voce stridula fu il primo rumore della giornata.
«Su, alzati! Immediatamente!»
Harry si svegliò di soprassalto. La zia tamburellò di nuovo sulla porta.
«Sveglia!» urlò. Harry sentì i suoi passi avviarsi verso la cucina e poi il rumore della padella che veniva messa sul fornello.
Si girò sulla schiena e cercò di ricordare il sogno che stava facendo. Era un bel sogno. C’era una motocicletta volante. Ebbe la strana sensazione di averlo già fatto qualche altra volta.
Ecco di nuovo la zia dietro la porta.
«Non ti sei ancora alzato?» chiese.
«Sono quasi pronto» rispose Harry.
«Be’, vedi di spicciarti, voglio che sorvegli il bacon che ho messo sul fuoco. E non ti azzardare a farlo bruciare. Voglio che tutto sia perfetto, il giorno del compleanno di Duddy».
Harry si lasciò sfuggire un gemito.
«Cosa hai detto?» chiese aspra la zia da dietro la porta.
«Niente, niente…»
Il compleanno di Dudley… come aveva potuto dimenticarlo? Si alzò lentamente e cominciò a cercare i calzini. Ne trovò un paio sotto al letto e, dopo aver tolto un ragno da uno dei due, se li infilò. Harry c’era abituato perché il ripostiglio sotto la scala pullulava di ragni, e lui dormiva lì.
Una volta che si fu vestito, attraversò l’ingresso diretto in cucina. Il tavolo scompariva quasi completamente sotto la pila dei regali di compleanno di Dudley. Sembrava proprio che Dudley fosse riuscito a ottenere il nuovo computer che desiderava tanto, per non parlare del secondo televisore e della bici da corsa. Il motivo preciso per cui Dudley voleva una bici da corsa era un mistero per Harry, visto che Dudley era molto grasso e detestava fare moto, a meno che - inutile dirlo - non si trattasse di prendere a pugni qualcuno. Il punching-ball preferito di Dudley era Harry, quando riusciva ad acchiapparlo, il che non era facile. Non sembrava, ma Harry era molto veloce.
Forse per il fatto che viveva in un ripostiglio buio Harry era sempre stato piccolo e mingherlino per la sua età. E lo sembrava ancor più di quanto in realtà non fosse, perché non aveva altro da indossare che i vestiti smessi di Dudley, e Dudley era circa quattro volte più grosso di lui. Harry aveva un viso sottile, ginocchia nodose, capelli neri e occhi di un verde intenso. Portava un paio di occhiali rotondi, tenuti insieme con un sacco di nastro adesivo per tutte le volte che Dudley lo aveva preso a pugni sul naso. L’unica cosa che a Harry piaceva del proprio aspetto era una cicatrice molto sottile sulla fronte, che aveva la forma di una saetta. Per quanto ne sapeva, l’aveva da sempre, e la prima domanda che ricordava di aver mai rivolto a zia Petunia era stata come se la fosse fatta.
«Nell’incidente d’auto in cui sono morti i tuoi genitori» gli aveva risposto lei, «e non fare domande».
Non fare domande: questa era la prima regola per vivere in pace, con i Dursley.
Zio Vernon entrò in cucina mentre Harry stava girando il bacon.
«Fila a pettinarti!» sbraitò a mo’ di buongiorno.
Circa una volta alla settimana, zio Vernon alzava gli occhi dal suo giornale e urlava che Harry doveva tagliarsi i capelli. Harry si era tagliato i capelli più volte di tutti i suoi compagni di classe messi insieme, ma non c’era niente da fare: crescevano in quel modo, senza tregua.
Quando Dudley e sua madre entrarono in cucina, Harry stava friggendo le uova. Dudley assomigliava molto a zio Vernon. Aveva un gran faccione roseo, quasi per niente collo, occhi piccoli celeste acquoso e folti capelli biondi e lisci che gli pendevano su un gran testone. Spesso zia Petunia diceva che Dudley sembrava un angioletto; Harry invece diceva che sembrava un maiale con la parrucca.
Harry mise in tavola i piatti con le uova al bacon, un’operazione non particolarmente facile, dato che lo spazio era poco. Nel frattempo, Dudley contava i regali. Si rabbuiò.
«Trentasei» disse volgendosi a guardare il padre e la madre. «Due meno dell’anno scorso».
«Caro, non hai contato il regalo di zia Marge. Vedi, è qui, sotto questo regalone grosso grosso di papà e mamma».
«D’accordo, trentasette» disse Dudley tutto paonazzo. Harry, avendo capito che era in arrivo uno dei terrificanti capricci alla Dudley, cominciò a trangugiare il suo bacon il più in fretta possibile, nel caso il cugino avesse buttato il tavolo a gambe all’aria.
Evidentemente, anche zia Petunia annusò il pericolo, perché si affrettò a dire: «E oggi, mentre siamo fuori, ti compreremo altri due regali. Che ne dici, tesoruccio? Altri due regali. Va bene così?»
Dudley ci pensò su un attimo. Lo sforzo sembrò immenso. Alla fine disse lentamente: «Così ne avrò trenta… trenta…»
«Trentanove, dolcezza mia» disse zia Petunia.
«Ah!» Dudley si lasciò cadere pesantemente su una sedia e afferrò il pacchetto più vicino. «Allora va bene».
Zio Vernon ridacchiò sotto i baffi.
«Questa piccola canaglia vuole avere tutto quel che gli spetta fino all’ultimo, proprio come papà. Bravo, Dudley!» E gli scompigliò i capelli.
In quel momento squillò il telefono e zia Petunia andò a rispondere mentre Harry e zio Vernon rimasero a guardare Dudley scartare la bicicletta da corsa, una cinepresa, un aeroplano telecomandato, sedici nuovi videogiochi e un videoregistratore. Stava strappando l’incarto di un orologio da polso d’oro quando zia Petunia tornò nella stanza con l’aria arrabbiata e preoccupata a un tempo.
«Cattive notizie, Vernon» disse. «La signora Figg si è rotta una gamba. Non può prenderselo». E così dicendo, indicò Harry con un brusco cenno del capo.
Dudley spalancò la bocca inorridito, ma il cuore di Harry balzò di gioia. Ogni anno, per il compleanno di Dudley, i genitori portavano lui e un suo amico fuori per tutto il giorno, in giro per parchi, a fare scorpacciate di hamburger o al cinema. Ogni anno Harry rimaneva con la signora Figg, una vecchia signora mezza matta che viveva due traverse più avanti. Harry detestava quella casa. Puzzava di cavolo e la signora Figg lo costringeva a guardare le fotografìe di tutti i gatti che aveva posseduto in vita sua.
«E ora che si fa?» chiese zia Petunia guardando furibonda Harry come se fosse colpa sua. Harry sapeva che avrebbe dovu-to dispiacersi per il fatto che la signora Figg si era rotta la gamba, ma non gli fu facile quando si ricordò che ancora per un intero anno non sarebbe stato costretto a vedere Lilli, Baffo, Mascherina e Pallina.
«Si potrebbe provare a telefonare a Marge» suggerì zio Vernon.
«Non dire sciocchezze, Vernon, lo sai benissimo che lo detesta».
I Dursley parlavano spesso di Harry in quel modo come se lui non fosse presente, o piuttosto come se fosse qualcosa di molto sgradevole e incapace di capirli, come una lumaca.
«Cosa ne dici di… come si chiama… la tua amica… Yvonne?»
«È in vacanza a Maiorca» rimbeccò zia Petunia.
«Potreste lasciarmi semplicemente qui» azzardò Harry speranzoso (una volta tanto, avrebbe potuto guardare quel che voleva alla televisione o persino provare il computer di Dudley).
Zia Petunia fece una faccia come se avesse appena ingoiato un limone.
«Per trovare la casa in rovina quando torniamo?» ringhiò.
«Mica la faccio saltare in aria» disse Harry, ma nessuno lo ascoltò.
«Forse potremmo portarlo allo zoo» disse Petunia lentamente, «…e lasciarlo in macchina…»
«Non può restare in macchina da solo. È nuova di zecca…»
Dudley cominciò a piangere forte. In realtà, non stava piangendo; erano anni che non piangeva sul serio, ma sapeva che se contorceva la faccia e si lagnava la madre gli avrebbe dato qualsiasi cosa lui avesse chiesto.
«Duddy tesorino caro, non piangere! Mammina non permetterà che quello ti rovini la festa!» esclamò stringendolo tra le braccia.
«N-n-non… voglio… che… venga… pure lui!» gridò Dudley tra un finto singhiozzo e l’altro. «Lui rovina s-s-sempre tutto!» E lanciò a Harry un’occhiata malevola attraverso uno spiraglio tra le braccia della madre.
In quel preciso momento suonò il campanello: «Santo cielo, sono arrivati!» esclamò zia Petunia frenetica. E un attimo dopo, l’amico del cuore di Dudley, Piers Polkiss, entrò insieme alla madre. Piers era un ragazzo tutto pelle e ossa, con una faccia da topo. Era lui che in genere immobilizzava le persone con le braccia dietro la schiena mentre Dudley le picchiava. Dudley smise all’istante di far finta di piangere.
Mezz’ora più tardi, Harry, che non riusciva a credere a tanta fortuna, si era infilato sul sedile posteriore della macchina dei Dursley insieme a Piers e a Dudley, diretto allo zoo per la prima volta in vita sua. Lo zio e la zia non erano riusciti a inventarsi niente di diverso per lui, ma prima di uscire zio Vernon lo aveva preso da parte.
«Ti avverto» gli aveva detto piazzandoglisi davanti col suo faccione paonazzo a un millimetro dal suo naso, «ti avverto una volta per tutte, ragazzino, niente cose strane, niente di niente, intesi? O resterai chiuso in quel ripostiglio fino a Natale».
«Non farò proprio niente» disse Harry, «lo prometto…»
Ma zio Vernon non gli credeva. Nessuno gli credeva mai.
Il fatto era che spesso intorno a Harry accadevano fatti strani, e non serviva a niente dire ai Dursley che lui non c’entrava.
Per esempio, una volta zia Petunia, stanca di veder tornare Harry dal barbiere come se non ci fosse stato affatto, aveva preso un paio di forbici da cucina e gli aveva tagliato i capelli talmente corti da lasciarlo quasi pelato, tranne per la frangetta, che non aveva toccato per «nascondere quell’orribile cicatrice». Dudley era scoppiato a ridere a crepapelle nel vedere Harry così conciato e lui aveva passato una notte insonne al pensiero di come sarebbe andata l’indomani a scuola, dove già tutti lo prendevano in giro per i vestiti sformati e gli occhiali tenuti insieme con lo scotch. Ma la mattina dopo, al risveglio, aveva trovato i capelli esattamente come erano prima che zia Petunia glieli avesse rapati. Per questo era stato punito con una settimana di reclusione nel ripostiglio, sebbene avesse cercato di spiegare che non sapeva spiegare come mai gli fossero ricresciuti così in fretta.
Un’altra volta, la zia aveva cercato di infilargli a forza un orrendo maglione smesso di Dudley (marrone con dei pompon arancioni). Ma più cercava di infilarglielo dalla testa, più il maglione si rimpiccioliva, fino a che avrebbe potuto andar bene a un burattino, ma non certo a Harry. Zia Petunia aveva decretato che doveva essersi ritirato in lavatrice e questa volta Harry, con suo gran sollievo, non venne punito.
Invece, il giorno che fu trovato sul tetto delle cucine della scuola, passò un guaio terribile. La banda di amici di Dudley lo stava rincorrendo, come al solito, quando, con immensa sorpresa di Harry e di tutti, lui si era ritrovato seduto sul comignolo. I Dursley avevano ricevuto una lettera molto indignata della direttrice, la quale li informava che Harry aveva dato la scalata all’edifìcio scolastico. Eppure, lui aveva soltanto cercato (come gridò a zio Vernon attraverso la porta sprangata del ripostiglio) di saltare dietro i grossi bidoni della spazzatura fuori dalla cucina. E credeva che, a metà di quel salto, una folata di vento lo avesse sollevato in aria.
Ma quel giorno niente sarebbe andato storto. E valeva persino la pena di trascorrere una giornata con Dudley e Piers, pur di passarla da qualche parte che non fosse la scuola, il ripostiglio, o il salotto puzzolente di cavolo della signora Figg.
Strada facendo, zio Vernon si lamentava con zia Petunia. A lui piaceva lamentarsi di tutto: i colleghi di lavoro, Harry, il consiglio, Harry, la banca, Harry erano solo alcuni dei suoi argomenti preferiti. Quella mattina aveva scelto di lamentarsi delle motociclette.
«…corrono come pazzi, questi giovani teppisti!» esclamò mentre una moto li sorpassava.
«Anche in un sogno che ho fatto c’era una moto» disse Harry ricordando improvvisamente, «e volava».
Per poco zio Vernon non tamponò la macchina che lo precedeva. Si voltò di scatto e urlò a Harry, con la faccia che assomigliava a una gigantesca barbabietola con i baffi: «LE MOTOCICLETTE NON VOLANO!»
Dudley e Piers repressero una risata.
«Lo so che non volano» rispose Harry. «Era soltanto un sogno».
Ma si pentì di aver parlato. Se c’era una cosa che i Dursley odiavano ancor più delle sue domande era sentirlo parlare di cose che non si comportavano come dovevano, anche se si trattava di sogni o di cartoni animati. A quanto pareva, temevano che si facesse venire in mente idee pericolose.
Era un sabato assolato e lo zoo era pieno di famigliole. All’ingresso, i Dursley comprarono a Dudley e a Piers due enormi gelati al cioccolato e poi, siccome la sorridente barista del baracchino aveva chiesto a Harry cosa volesse prima che loro avessero potuto allontanarlo, gli comprarono un economico ghiacciolo al limone. Non era neanche male, pensò Harry leccandolo, mentre guardavano un gorilla che si grattava la testa e assomigliava terribilmente a Dudley, tranne che non era biondo.
Fu la mattinata più felice che Harry avesse passato da molto tempo. Ebbe cura di camminare a una certa distanza dai Dursley in modo che Dudley e Piers, che per l’ora di pranzo avevano già cominciato ad annoiarsi degli animali, non tornassero al loro passatempo preferito: prenderlo a pugni. Pranzarono al ristorante dello zoo e, quando Dudley fece un capriccio perché il suo Trionfo di Gelato con Panna non era abbastanza grande, zio Vernon gliene comprò un altro e a Harry fu permesso di finire il primo.
In seguito Harry si disse che avrebbe dovuto sapere che era troppo bello per durare.
Dopo pranzo andarono al rettilario. Il luogo era fresco e semibuio, con teche illuminate lungo tutte le pareti. Dietro ai vetri, lucertole e serpenti di ogni specie strisciavano e si arrampicavano su tronchi di legno e sassi. Dudley e Piers volevano vedere i giganteschi e velenosi cobra e i possenti pitoni capaci di stritolare un uomo. Dudley fu molto veloce nell’individuare il serpente più grosso di tutti. Avrebbe potuto benissimo avvolgersi due volte intorno alla macchina di zio Vernon e ridurla alle dimensioni di un bidone per la spazzatura, ma al momento non sembrava in vena. Anzi, era profondamente addormentato. Dudley rimase con il naso spiaccicato contro il vetro, a contemplarne le spire brune e lucenti.
«Fallo muovere» chiese piagnucolando al padre. Zio Vernon picchiò sul vetro, ma il serpente non si mosse.
«Ancora!» ordinò Dudley. Zio Vernon tornò a bussare forte con le nocche sul vetro, ma il serpente continuò a ronfare.
«Che noia!» disse Dudley con voce lagnosa. E corse via.
Harry si spostò davanti alla vetrina e guardò intensamente il serpente. Non si sarebbe stupito se anche lui fosse morto di noia, senza altra compagnia che quegli stupidi che tamburellavano tutto il giorno con le dita contro il vetro cercando di disturbarlo. Era peggio che avere per camera da letto un ripostiglio, dove l’unico visitatore era zia Petunia che pestava sulla porta per svegliarti; Harry, almeno, poteva girare per tutta la casa.
D’un tratto il serpente aprì gli occhi piccoli e luccicanti. Lentamente, molto lentamente, sollevò la testa finché poté guardare dritto in quelli di Harry.
Gli fece l’occhiolino.
Harry lo fissò stupito. Poi sbirciò rapido in giro per vedere se qualcuno li osservava. Nessuno. Tornò a fissare il serpente e ricambiò la strizzatina d’occhi.
Il serpente girò la testa di scatto verso zio Vernon e Dudley, poi alzò lo sguardo al cielo. Lanciò a Harry un’occhiata che equivaleva a dire: «Questo è quel che mi tocca sempre».
«Lo so» mormorò Harry di qua dal vetro, anche se non era sicuro che il serpente potesse udirlo. «Deve essere veramente fastidioso».
Il serpente annuì energicamente.
«Ma tu da dove vieni?» gli chiese Harry.
Il serpente colpì con la coda un cartellino accanto al vetro. Harry lo guardò attentamente.
Boa constrictor, Brasile.
«Era un bel posto?»
Il boa colpì di nuovo con la coda il cartellino e Harry lesse ancora: Questo esemplare è nato e cresciuto in cattività. «Ah, capisco, non sei mai stato in Brasile, tu!»
Il serpente scosse la testa e in quello stesso momento un grido assordante alle spalle di Harry li fece trasalire entrambi: «DUDLEY! SIGNOR DURSLEY! VENITE A VEDERE QUESTO SERPENTE! È INCREDIBILE QUEL CHE STA FACENDO!» Dudley caracollò verso di loro più in fretta che poté.
«Fuori dai piedi, tu!» intimò mollando un pugno nelle costole a Harry, che, colto alla sprovvista, cadde a terra come un sacco. Quel che seguì avvenne così in fretta che nessuno si rese conto del come: un attimo prima Piers e Dudley erano chini vicinissimi al vetro, e un attimo dopo erano saltati all’indietro tra grida di orrore.
Harry si tirò su a sedere boccheggiando; il vetro anteriore della teca del boa constrictor era scomparso. Il grosso serpente stava svolgendo rapidamente le sue spire e scivolando sul pavimento, mentre in tutto il rettilario la gente si metteva a urlare e cominciava a correre verso le uscite.
Mentre gli strisciava accanto a tutta velocità, Harry avrebbe giurato di aver udito una voce bassa e sibilante dire: «Brasile, sto arrivando… Grazzzie, amigo».
Il custode del rettilario era sotto shock.
«Ma il vetro» continuava a dire, «dove è finito il vetro?» Il direttore dello zoo in persona preparò a zia Petunia una tazza di tè molto forte e zuccherato, e intanto non la finiva più di scusarsi. Piers e Dudley non riuscivano a far altro che farfugliare. Per quel che aveva visto Harry, il serpente gli aveva soltanto dato un colpettino giocoso sui tacchi, mentre passava, ma il tempo di tornare tutti nella macchina di zio Vernon e già Dudley raccontava come il boa gli avesse quasi staccato la gamba a morsi, mentre Piers giurava che aveva cercato di soffocarlo nella sua stretta mortale. Ma il peggio, almeno per Harry, fu che Piers riuscì a calmarsi quel tanto che gli consentì di dire: «Harry gli ha parlato. Non è vero, Harry?»
Zio Vernon aspettò che Piers fosse uscito di casa prima di cominciare a prendersela con Harry. Era così arrabbiato che parlava a stento. Riuscì a malapena a dire: «Vai… ripostiglio… stai lì… niente cibo» prima di crollare su una sedia, tanto che zia Petunia dovette correre a prendergli un grosso bicchiere di brandy.
Molto più tardi Harry, steso al buio nel suo ripostiglio, desiderò avere un orologio. Non sapeva che ora fosse e non era sicuro che i Dursley dormissero. Fino a quel momento, non poteva rischiare di sgattaiolare in cucina a mangiare qualcosa.
Viveva con i Dursley da quasi dieci anni, dieci anni di infelicità, per quanto poteva ricordare, fin da quando era piccolo e i suoi genitori erano morti in quell’incidente d’auto. Non ricordava di essere stato anche lui nella macchina al momento della loro morte. Talvolta, quando sforzava la memoria durante le lunghe ore trascorse nel ripostiglio, aveva una strana visione: un lampo accecante di luce verde e un dolore bruciante sulla fronte. Quello, immaginava, era stato l’incidente, anche se non riusciva a capire da dove venisse la luce verde. I genitori, non li ricordava affatto. Gli zii non ne parlavano mai e, naturalmente, era proibito fare domande al riguardo. In casa, non c’era neanche una loro fotografia.
Quando era più piccolo aveva sognato tante volte che qualche parente sconosciuto venisse a portarlo via, ma questo non era mai accaduto; gli unici suoi familiari erano i Dursley. Eppure, talvolta gli sembrava (o forse sperava) che gli estranei per strada lo riconoscessero. Ed erano degli estranei veramente strani. Una volta un ometto mingherlino col cilindro viola gli aveva fatto un inchino mentre era a far spese con zia Petunia e Dudley. Furiosa, dopo avergli chiesto se conosceva quell’uomo, zia Petunia li aveva trascinati fuori dal negozio senza comprare niente. Un’altra volta, in autobus, un’anziana donna dall’aspetto stravagante, tutta vestita di verde, lo aveva salutato allegramente. Qualche giorno prima, un uomo calvo, con indosso un mantello color porpora molto lungo, gli aveva stretto la mano per strada e poi si era allontanato senza una parola. La cosa più stramba di tutte quelle persone era che sembravano dileguarsi nel nulla nel momento stesso in cui Harry cercava di guardarle da vicino.
A scuola Harry non aveva amici. Tutti sapevano che la ghenga di Dudley odiava quello strano Harry Potter, infagottato nei suoi vestiti smessi e con gli occhiali rotti, e a nessuno piaceva mettersi contro la ghenga di Dudley.
CAPITOLO 3 LETTERE DA NESSUNO
La fuga del boa constrictor brasiliano costò a Harry il castigo più lungo mai ricevuto fino a quel momento. Quando finalmente gli fu permesso di uscire dal ripostiglio, erano ormai iniziate le vacanze estive e Dudley aveva già rotto la nuova cinepresa, mandato a sbattere l’aeroplanino telecomandato, e la prima volta che aveva provato la bicicletta da corsa aveva investito l’anziana signora Figg che attraversava Privet Drive con le stampelle.
Harry era molto contento che la scuola fosse finita, ma non c’era modo di sfuggire alla ghenga di Dudley che veniva a casa ogni santo giorno. Piers, Dennis, Malcolm e Gordon erano grandi e stupidi, ma poiché Dudley era il più grande e il più stupido di tutti, era il capo. Tutti gli altri erano ben felici di unirsi a lui nel praticare il suo sport preferito: la caccia a Harry.
Ecco perché Harry passava più tempo possibile fuori di casa, gironzolando nei dintorni e pensando alla fine delle vacanze, che gli avrebbe portato un esile raggio di speranza. A settembre sarebbe andato alle medie e, per la prima volta in vita sua, non sarebbe stato con Dudley. Dudley aveva un posto riservato a Smeltings, la scuola dove aveva studiato zio Vernon. Anche Piers Polkiss sarebbe andato lì. Harry, invece, sarebbe andato a Stonewall High, la scuola pubblica del quartiere. Dudley trovava la cosa molto divertente.
«Lo sai che a Stonewall il primo giorno di scuola ti ficcano la testa nella tazza del gabinetto?» disse a Harry. «Vuoi venire di sopra a fare esercizio?»
«No, grazie» rispose Harry. «La povera tazza del gabinetto non si è mai vista cacciare dentro niente di così orribile come la tua testa; potrebbe sentirsi male». Poi scappò via prima che Dudley potesse capire quello che aveva detto.
Un giorno di luglio, zia Petunia accompagnò Dudley a Londra per comprare l’uniforme di Smeltings, lasciando Harry dalla signora Figg. Quel giorno, la vecchia signora era meno peggio del solito. Si era rotta la gamba inciampando in uno dei suoi gatti e quindi non sembrava più entusiasta di loro come prima. Permise a Harry di guardare la televisione e gli diede un pezzo di torta al cioccolato, che sapeva di stantio come se fosse lì da qualche anno.
Quella sera Dudley sfilò in salotto per la famiglia, nella sua uniforme nuova di zecca. I ragazzi di Smeltings indossavano una marsina bordeaux, pantaloni arancioni alla zuava e un cappello piatto detto paglietta. Erano inoltre dotati di un bastone bitorzoluto usato per picchiarsi a vicenda quando gli insegnanti non guardavano. Si riteneva che questo fosse un buon addestramento per la vita futura.
Guardando Dudley nei suoi nuovi pantaloni alla zuava, zio Vernon disse con tono burbero che non si era mai sentito tanto orgoglioso in vita sua. Zia Petunia scoppiò in lacrime e disse che non le sembrava vero che quello fosse il suo Didino, da quanto era bello e cresciuto. Harry non si arrischiò a parlare. Aveva l’impressione di essersi rotto un paio di costole nel tentativo di non ridere.
La mattina dopo, quando Harry entrò in cucina, c’era un odore orribile che sembrava provenire da una grossa bacinella di metallo che era dentro il lavandino. Si avvicinò per dare un’occhiata. La bacinella era piena di quelli che sembravano stracci sporchi a mollo in un’acqua grigia.
«E questo cos’è?» chiese a zia Petunia. Lei serrò le labbra come faceva sempre quando Harry azzardava una domanda.
«La tua nuova uniforme scolastica» rispose.
Harry guardò di nuovo dentro la bacinella.
«Oh!» disse. «Non avevo capito che dovesse essere tanto bagnata».
«Non fare lo sciocco!» lo apostrofò aspramente zia Petunia. «Ti sto tingendo di grigio alcuni vestiti smessi di Dudley. Quando avrò finito sembreranno uguali a quelli di tutti gli altri».
Di questo Harry dubitava seriamente, ma pensò fosse meglio non discutere. Si sedette a tavola e cercò di non immaginare che aspetto avrebbe avuto il primo giorno di scuola a Stonewall High. Probabilmente quello di qualcuno con addosso pezzi di pelle di un vecchio elefante.
Dudley e zio Vernon entrarono in cucina ed entrambi arricciarono il naso per via dell’odore che emanava la nuova uniforme di Harry. Zio Vernon aprì come al solito il giornale e Dudley picchiò il tavolo con il bastone di Smeltings, che ormai si portava dappertutto.
In quel momento, udirono lo scatto della cassetta delle lettere e il rumore lieve della posta che cadeva sullo zerbino.
«Vai a prendere la posta, Dudley» disse zio Vernon da dietro il giornale.
«Mandaci Harry».
«Vai a prendere la posta, Harry».
«Mandaci Dudley».
«Punzecchialo con il bastone di Smeltings, Dudley».
Harry schivò il bastone e andò a prendere la posta. Sullo zerbino c’erano tre cose: una cartolina della sorella di zio Vernon, Marge, che era in vacanza nell’isola di Wight, una busta marrone che sembrava una bolletta e… una lettera per Harry.
Harry la raccolse e la fissò con il cuore che sussultava. Nessuno in vita sua gli aveva mai scritto. E chi avrebbe dovuto farlo? Non aveva amici, non aveva altri parenti; non era neanche socio della biblioteca e quindi non aveva mai ricevuto perentori avvisi di restituzione. Eppure, eccola lì, una lettera dall’indirizzo così inequivocabile da non poter essere frainteso:
Signor H. Potter
Ripostiglio del sottoscala
Privet Drive, 4
Little Whinging
Surrey
La busta era spessa e pesante, di pergamena giallastra, e l’indirizzo era scritto con inchiostro verde smeraldo. Non c’era francobollo. Girando la busta con mano tremante, Harry vide un sigillo di ceralacca color porpora con uno stemma araldico: un leone, un’aquila, un tasso e un serpente intorno a una grossa ‘H’ «Allora, sbrigati un po’!» gridò lo zio Vernon dalla cucina. «Che stai facendo, controlli che non ci siano pacchi bomba tra la posta?» E ridacchiò della propria battuta.
Harry tornò in cucina continuando a fissare la lettera. Consegnò a zio Vernon la bolletta e la cartolina, si sedette lentamente e cominciò ad aprire la busta gialla.
Zio Vernon strappò la busta della bolletta, sbuffò disgustato e voltò la cartolina.
«Marge sta male» informò zia Petunia. «Ha mangiato uno strano frutto di mare…»
«Papà» disse Dudley d’un tratto, «papà, Harry ha ricevuto qualcosa!»
Harry stava per aprire la lettera che era scritta sulla stessa pesante pergamena della busta, quando questa gli venne strappata di mano da zio Vernon.
«È mia!» disse Harry cercando di riprendersela.
«E chi mai ti scriverebbe?» sibilò zio Vernon sventolando la lettera con una mano per aprirla e gettandovi un’occhiata. In men che non si dica, la faccia gli passò dal rosso al verde, più rapida di un semaforo. Ma non finì lì. Nel giro di pochi secondi diventò grigiastra, come il porridge andato a male.
«P-P-Petunia!» ansimò.
Dudley cercò di carpirgli la lettera per leggerla, ma zio Vernon la teneva in alto fuori dalla sua portata. Zia Petunia, incuriosita, la prese e lesse la prima riga. Per un attimo sembrò che stesse per svenire. Si portò le mani alla gola ed emise un suono soffocato.
«Vernon, oh, mio Dio, Vernon!…»
Si fissarono l’un l’altra, pareva avessero dimenticato che Harry e Dudley erano ancora lì. Dudley non era abituato a essere ignorato. Assestò al padre un colpo secco sulla testa con il bastone di Smeltings.
«Voglio leggere quella lettera» disse forte.
«Io voglio leggerla» disse Harry furioso, «è mia».
«Fuori, tutti e due!» gracchiò zio Vernon ricacciando la lettera nella busta.
Harry non si mosse.
«VOGLIO LA MIA LETTERA!» gridò.
«Falla vedere a me!» ribatté Dudley.
«FUORI!» ruggì zio Vernon. Poi li prese entrambi per la collottola e li scaraventò nell’ingresso sbattendogli la porta della cucina in faccia. Immediatamente, i due ragazzi ingaggiarono una lotta furibonda ma silenziosa per decidere chi dovesse guardare dal buco della serratura. Vinse Dudley, per cui Harry, con gli occhiali che gli penzolavano da un orecchio, si stese a pancia in giù sul pavimento per carpire qualcosa attraverso la fessura della porta.
«Vernon» stava dicendo zia Petunia con voce tremante, «guarda l’indirizzo… Ma come fanno a sapere dove dorme? Pensi che stiano sorvegliando la casa?»
«Sorvegliando… spiando… forse ci pedinano» borbottò zio Vernon fuori di sé.
«Ma cosa dobbiamo fare? Rispondere? Dire che non vogliamo…»
Harry vedeva le scarpe nere tirate a lucido di zio Vernon misurare a grandi passi la cucina.
«No» disse infine. «No, ignoreremo la faccenda. Se non ricevono risposta… Sì, è la cosa migliore… non faremo niente…»
«Ma…»
«Non intendo averne uno per casa, Petunia! Non avevamo giurato, quando lo abbiamo preso, che avremmo messo fine a quella pericolosa insensatezza?»
Quella sera, tornato dal lavoro, zio Vernon fece una cosa che non aveva mai fatto prima: andò a trovare Harry nel suo ripostiglio.
«Dov’è la mia lettera?» chiese il ragazzo non appena zio Vernon fu riuscito a passare dalla porticina. «Chi mi scrive?»
«Nessuno. Era indirizzata a te per sbaglio» tagliò corto zio Vernon. «L’ho bruciata».
«Non è stato uno sbaglio» disse Harry arrabbiato. «C’era segnato l’indirizzo del mio ripostiglio».
«SILENZIO!» urlò zio Vernon, e due ragni caddero dal soffitto. Fece un paio di respiri profondi e poi si costrinse a un sorriso che parve costargli molto sforzo.
«Ehm… già, Harry… a proposito del ripostiglio. Con tua zia stavamo pensando… sei davvero cresciuto troppo per stare qui dentro… pensavamo che sarebbe carino se ti trasferissi nella seconda camera da letto di Dudley».
«E perché?» chiese Harry.
«Non fare domande» lo rimbeccò lo zio. «E ora, porta tutta questa roba di sopra».
La casa dei Dursley aveva quattro camere da letto: una per zio Vernon e zia Petunia, una per gli ospiti (in genere, la sorella di zio Vernon, Marge), una dove Dudley dormiva e un’altra dove Dudley teneva tutti i giocattoli e le cose che non entravano nella sua prima camera. A Harry bastò un solo viaggio per trasferire dal ripostiglio tutti i suoi averi. Si sedette sul letto e si guardò intorno. Non c’era una cosa che fosse integra. La cinepresa ricevuta appena un mese prima era buttata sopra un piccolo carro armato semovente con cui una volta Dudley aveva investito il cane dei vicini; in un angolo c’era il primo televisore di Dudley, che il ragazzo aveva sfondato con un calcio quando avevano cancellato il suo programma preferito; c’era una grossa gabbia per uccelli, che un tempo era servita per un pappagallo che Dudley aveva barattato a scuola con un vero fucile ad aria compressa, ora poggiato su una mensola con un’estremità tutta contorta perché lui ci si era seduto sopra. Gli altri scaffali erano pieni di libri. Quelli erano l’unica cosa nella stanza che sembrava non essere mai stata toccata.
Da sotto giungeva la voce di Dudley che urlava a sua madre con quanto fiato aveva in gola: «Non ce lo voglio… quella stanza mi serve… fallo uscire…!»
Harry sospirò e si stese sul letto. Il giorno prima avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì. Mentre ora avrebbe preferito tornare nel suo ripostiglio con la lettera, piuttosto che essere lassù senza.
L’indomani mattina, a colazione, tutti erano piuttosto taciturni. Dudley era stravolto. Aveva gridato, picchiato suo padre con il bastone, vomitato di proposito, preso a calci sua madre e fatto volare la tartaruga sopra il tetto della serra, e ancora non aveva riottenuto la sua camera. Harry pensava alla mattina precedente, a quella stessa ora, e rimpiangeva amaramente di non aver aperto la lettera nell’ingresso. Zio Vernon e zia Petunia si scambiavano sguardi cupi.
Quando arrivò la posta, zio Vernon, che sembrava si stesse sforzando di essere carino con Harry, mandò Dudley a prenderla. Lo udirono picchiare colpi a destra e a manca con il suo bastone lungo tutto il tragitto. Poi gridò: «Ce n’è un’altra! Signor H. Potter, Cameretta, Privet Drive, 4…»
Con un grido strozzato, zio Vernon balzò dalla sedia e si precipitò nell’ingresso, con Harry alle calcagna. Zio Vernon dovette lottare e atterrare Dudley perché mollasse la lettera, mentre Harry l’aveva afferrato per il collo, da dietro. Dopo qualche minuto di grande confusione in cui nessuno riuscì a evitare i colpi di bastone di Dudley, zio Vernon si raddrizzò annaspando per riprendere fiato, con la lettera di Harry stretta in mano.
«Va’ nel ripostiglio… cioè, volevo dire, in camera tua!» intimò ansimando a Harry. «E tu, Dudley… va’ fuori!… Esci!»
Harry camminava su e giù per la sua nuova stanza. Qualcuno sapeva che aveva traslocato dal ripostiglio e apparentemente sapeva anche che non aveva ricevuto la prima lettera. Questo significava che ci avrebbe provato di nuovo? Se sì, avrebbe fatto in modo che non fallisse. Aveva un piano.
La mattina dopo, la sveglia, che era stata riparata, suonò alle sei. Harry la spense subito e si vestì senza far rumore. Non doveva svegliare i Dursley. Sgattaiolò giù per le scale senza accendere le luci.
Avrebbe aspettato il postino all’angolo di Privet Drive per farsi consegnare la posta del numero 4. Il cuore gli batteva forte mentre attraversava con cautela l’ingresso diretto verso la porta. «AAAAARRRRGGGGHHHH!»
Harry fece un salto: aveva inciampato in qualcosa di grosso e molle steso sullo zerbino… una cosa viva!
Di sopra si accesero le luci e con orrore Harry si rese conto che la cosa grossa e molle era la faccia di suo zio Vernon. Aveva dormito in un sacco a pelo, davanti alla porta di casa, per esser certo che Harry non facesse proprio quello che aveva cercato di fare. Sbraitò contro di lui per circa mezz’ora e poi gli ordinò di andare a preparargli una tazza di tè. Harry si trasferì tristemente in cucina e al suo ritorno la posta era arrivata dritta dritta in grembo a zio Vernon. Vide tre lettere con l’indirizzo scritto in inchiostro verde.
«Voglio…» cominciò, ma zio Vernon le stava facendo a pezzi davanti ai suoi occhi.
Quel giorno, zio Vernon non andò in ufficio. Rimase a casa e sigillò la cassetta delle lettere.
«Capisci» spiegò a zia Petunia con una manciata di chiodi in bocca, «se non riescono a consegnarla, ci rinunceranno e basta».
«Non sono sicura che funzionerà, Vernon».
«Oh, la mente di questa gente funziona in modo strano, Petunia; non sono mica come te e me» disse lui cercando di battere un chiodo con il pezzo di dolce alla frutta che zia Petunia gli aveva appena portato.
Venerdì arrivarono non meno di dodici lettere per Harry. Poiché non passavano dalla buca, erano state infilate sotto la porta, nelle fessure laterali e alcune persino nella finestrella del bagno al piano terra.
Zio Vernon rimase di nuovo a casa. Dopo aver bruciato tutte le lettere, tirò fuori chiodi e martello e chiuse con assi di legno tutte le possibili fessure sulla porta davanti e su quella del retro, cosicché non si poteva più uscire. Mentre lavorava, canticchiava un allegro motivetto e trasaliva a ogni minimo rumore.
Sabato la cosa cominciò a sfuggire di mano. Ventiquattro lettere indirizzate a Harry trovarono il modo di entrare in casa arrotolate e nascoste dentro ognuna delle due dozzine di uova che il lattaio, perplesso, aveva consegnato a zia Petunia attraverso la finestra del soggiorno. Mentre zio Vernon faceva telefonate inferocite all’ufficio postale e alla latteria, cercando qualcuno con cui prendersela, zia Petunia, in cucina, sminuzzava le lettere col frullatore.
«Ma chi diavolo è che vuole tanto parlarti?» chiese sbalordito Dudley a Harry.
Domenica mattina zio Vernon si sedette per fare colazione con un’aria stanca e sofferente, ma felice.
«Niente posta, la domenica» ricordò agli altri tutto contento, spalmando il giornale di marmellata d’arancia. «Oggi niente maledettissime lettere…»
Mentre pronunciava queste parole, qualcosa piovve con un fruscio giù per la cappa del camino e lo colpì sulla nuca. Un attimo dopo, trenta o quaranta lettere piombarono giù come una gragnuola di proiettili. I Dursley le schivarono, ma Harry fece un balzo per cercare di prenderne una…
«Fuori! FUORI!»
Zio Vernon abbrancò Harry all’altezza della vita e lo scaraventò nell’ingresso. Una volta che zia Petunia e Dudley furono corsi fuori proteggendosi il viso con le braccia, zio Vernon sbatté la porta. Da fuori, si sentivano ancora le lettere inondare la stanza, rimbalzando sulle pareti e sul pavimento.
«Questo è troppo» disse zio Vernon cercando di parlare con calma e al tempo stesso strappandosi a ciuffi i folti baffi. «Vi voglio qui tra cinque minuti, pronti a partire. Ce ne andiamo. Prendete solo qualche vestito. Niente discussioni».
Aveva un’aria così minacciosa, con i baffi che gli mancavano per metà, che nessuno osò contraddirlo. Dieci minuti dopo, si erano aperti un varco strappando le assi inchiodate sulle porte ed erano saliti in macchina, dirigendosi a tutta velocità verso l’autostrada. Dudley, seduto sul sedile posteriore, stava frignando; suo padre gli aveva dato uno scapaccione perché si era attardato a cercare di infilare il televisore, il videoregistratore e il computer nella sacca da ginnastica.
Andarono. E poi continuarono ad andare. Neanche zia Petunia osava chiedere dove. Ogni tanto zio Vernon invertiva la marcia e per un po’ procedeva nella direzione opposta.
«Me li levo di tomo… vedrai se non me li levo di tomo» bofonchiava ogni volta che faceva questa manovra.
Per tutto il giorno non si fermarono né per bere né per mangiare. Giunta l’ora di cena, Dudley ululava dalla disperazione. In vita sua non aveva mai passato una giornata brutta come quella. Aveva fame, aveva perso cinque programmi televisivi che voleva vedere e non era mai rimasto tanto tempo senza far saltare in aria un alieno sul suo computer.
Finalmente, zio Vernon si fermò davanti a uno squallido albergo, alla periferia di una grande città. Dudley e Harry divisero una stanza a due letti con lenzuola umide e ammuffite. Dudley cominciò a russare, ma Harry rimase sveglio, seduto sul davanzale della finestra, a fissare i fari delle macchine che passavano per la strada e a riflettere…
Il giorno dopo, per colazione, mangiarono corn-flakes stantii e pane tostato con pomodori in scatola. Avevano appena finito, quando la proprietaria dell’albergo si avvicinò al loro tavolo.
«Chiedo scusa, ma uno di voi è il signor H. Potter? È che di là sul bancone ho un centinaio di queste».
E così dicendo mostrò una lettera su cui tutti poterono leggere l’indirizzo scritto con inchiostro verde:
Signor H. Potter
Stanza 17
Railview Hotel
Cokeworth
Harry fece per prendere la lettera, ma zio Vernon lo colpì scansandogli la mano. La donna osservava stupita.
«Le prenderò io» disse zio Vernon alzandosi in fretta e seguendola fuori dalla sala da pranzo.
«Non sarebbe meglio andarsene a casa, caro?» suggerì timidamente zia Petunia ore dopo, ma zio Vernon sembrò non sentirla. Nessuno di loro sapeva esattamente che cosa stesse cercando. Li condusse nel bel mezzo di una foresta, scese dall’auto, si guardò intorno, scosse il capo, risalì a bordo e ripartirono. La stessa cosa accadde nel centro esatto di un campo arato, a metà di un ponte sospeso e in cima a un parcheggio multipiano.
«Papà è ammattito, vero?» chiese Dudley con voce piatta a zia Petunia verso sera. Zio Vernon aveva parcheggiato l’auto in riva al mare, li aveva chiusi tutti dentro ed era scomparso.
Cominciò a piovere. Grossi goccioloni tambureggiavano sul tettuccio dell’auto. Dudley tirò su col naso.
«È lunedì» disse alla madre. «Stasera ci sono i cartoni. Voglio andare da qualche parte dove hanno il televisore».
Lunedì. Questo ricordò qualcosa a Harry. Se era lunedì — e in genere si poteva star certi che Dudley sapesse i giorni della settimana per via della televisione - allora l’indomani, martedì, sarebbe stato l’undicesimo compleanno di Harry. Naturalmente, i suoi compleanni non erano mai propriamente divertenti: l’anno prima i Dursley gli avevano regalato una gruccia appendiabiti e un paio di calzini smessi di zio Vernon. Tuttavia, undici anni non si compiono mica tutti i giorni.
Zio Vernon era tornato e sorrideva. Portava un pacchetto lungo e sottile e non rispose a zia Petunia quando gli chiese che cosa avesse comprato.
«Ho trovato il posto ideale!» disse. «Venite! Tutti fuori!» Fuori dall’auto faceva molto freddo. Zio Vernon stava indicando qualcosa al largo che assomigliava a un grosso scoglio. Appollaiata in cima allo scoglio c’era la catapecchia più miserabile che si possa immaginare. Una cosa era certa: là dentro di televisori non ce n’erano.
«Le previsioni per stasera annunciano tempesta!» disse zio Vernon in tono gaio, battendo le mani. «Questo signore ha gentilmente acconsentito a prestarci la sua barca!»
Un vecchio sdentato venne verso di loro a passo lento, additando, con un ghigno alquanto malvagio, una vecchia barca a remi che ballonzolava sulle acque plumbee proprio sotto di loro.
«Ho già comprato un po’ di provviste» disse zio Vernon, «perciò tutti a bordo!»
Sulla barca faceva un freddo cane. Sprazzi d’acqua gelida e gocce di pioggia scendevano giù per il collo e un vento glaciale frustava loro la faccia. Dopo quelle che sembrarono ore raggiunsero lo scoglio dove zio Vernon, fra uno scivolone e l’altro, li guidò alla casetta diroccata.
L’interno era orribile; c’era un forte odore di alghe, attraverso le fessure delle pareti di legno fischiava il vento e il caminetto era umido e vuoto. C’erano solo due stanze.
Le provviste di zio Vernon si rivelarono essere un sacchetto di patatine a testa e quattro banane. Cercò di fare un fuoco, ma i sacchetti di patatine vuoti fecero soltanto un gran fumo e si accartocciarono.
«Adesso tornerebbe proprio utile qualcuna di quelle lettere, eh?» fece tutto allegro.
Era di ottimo umore. Era chiaro che pensava che nessuno avesse la minima possibilità di raggiungerli per consegnare la posta, con la burrasca che c’era. In cuor suo, Harry era d’accordo, anche se quel pensiero non lo rallegrava affatto.
Al calar della notte, la tempesta annunciata esplose attorno a loro. La schiuma delle onde altissime schizzava sulle pareti della catapecchia e un vento feroce faceva sbattere le luride finestre. Zia Petunia trovò alcune coperte ammuffite nella seconda stanza e arrangiò un letto per Dudley sul divano tutto roso dalle tarme. Lei e zio Vernon si sistemarono sul materasso bitorzoluto della stanza accanto e a Harry non rimase che rannicchiarsi nel punto più morbido del pavimento sotto la coperta più sottile e sbrindellata.
La notte avanzava e la tempesta infuriava sempre più feroce. Harry non riusciva a dormire. Scosso da brividi, si rigirava alla ricerca di una posizione comoda, con lo stomaco che gli gorgogliava per la fame. Il russare di Dudley era soffocato dal rombo dei tuoni che si scatenarono attorno a mezzanotte. Il quadrante luminoso dell’orologio di Dudley, che penzolava oltre il bordo del divano al suo polso grassoccio, informò Harry che avrebbe compiuto undici anni di lì a dieci minuti. Restò sdraiato a guardare il suo compleanno avvicinarsi a ogni ticchettio, a chiedersi se i Dursley se ne sarebbero ricordati, a domandarsi dove fosse in quel momento l’autore delle lettere.
Ancora cinque minuti. Harry udì qualcosa scricchiolare fuori. Sperò che il tetto non crollasse. Ancora quattro minuti. Forse, al loro ritorno, la casa di Privet Drive sarebbe stata talmente piena di lettere che in qualche modo sarebbe riuscito a rubarne una.
Ancora tre minuti. Era il mare a produrre quei forti schiocchi sullo scoglio? E (ancora due minuti) che cosa era mai quello strano scricchiolio? Era forse lo scoglio che si sgretolava nel mare?
Ancora un minuto e avrebbe compiuto undici anni. Trenta secondi… venti… dieci… nove… forse avrebbe svegliato Dudley soltanto per dargli fastidio… tre… due… uno.
BUM!
Tutta la catapecchia fu scossa da un tremito e Harry saltò su a sedere di scatto fissando la porta. Fuori c’era qualcuno che bussava chiedendo di entrare.
CAPITOLO 4 IL CUSTODE DELLE CHIAVI
BUM! Bussarono di nuovo. Dudley si svegliò di soprassalto. «Dov’è il cannone?» chiese stupidamente.
Alle loro spalle si udì un boato e zio Vernon piombò slittando nella stanza. In mano aveva un fucile… ora sapevano che cosa conteneva l’involto lungo e sottile che si era portato dietro.
«Chi va là?» gridò. «Vi avverto… sono armato!»
Ci fu una pausa. Poi…
SMASH!
La porta venne colpita con una tale forza che uscì di netto dai cardini e atterrò con uno schianto assordante sul pavimento.
Sulla soglia si stagliava un uomo gigantesco. Aveva il volto quasi nascosto da una criniera lunga e ispida e da una barba incolta e aggrovigliata, ma si distinguevano gli occhi che scintillavano come scarafaggi neri sotto tutti quei capelli.
Il gigante sembrò farsi piccolo piccolo per entrare nella catapecchia, piegandosi in modo da sfiorare appena il soffitto con la testa. Poi si chinò a terra, raccolse la porta e la rinfilò nei cardini con la massima disinvoltura. Il fragore della tempesta fuori si attutì un poco. Il gigante si voltò per guardarli a uno a uno.
«Che, si potrebbe avere una tazza di tè? Non è stato mica un viaggio facile, eh…»
A grandi passi, si avvicinò al divano dove Dudley giaceva pietrificato dal terrore.
«Scansati, ciccione!» gli intimò lo sconosciuto.
Con uno squittio, Dudley corse a nascondersi dietro la madre, che per il terrore si era rannicchiata dietro zio Vernon.
«Oh, ecco Harry!» disse il gigante.
Harry alzò lo sguardo su quel volto feroce, misterioso e selvaggio, e vide gli occhi lucidi come scarafaggi socchiuderei in un sorriso.
«L’ultima volta che ti ho visto, eri ancora un soldo di cacio» disse il gigante. «Assomigli un sacco a tuo papà, ma gli occhi, quelli li hai presi dalla mamma».
Zio Vernon emise uno strano rumore stridulo.
«Le ingiungo di andarsene immediatamente, signore!» disse. «Questa è un’effrazione bella e buona!»
«Ma chiudi il becco, scemo d’un Dursley!» esclamò il gigante; allungò la mano oltre lo schienale del divano, strappò il fucile dalle mani di zio Vernon, annodò la canna con la massima facilità come fosse stata di gomma e lo scaraventò in un angolo.
Zio Vernon emise un altro rumore strano, come un topo che viene calpestato.
«Allora, Harry» disse il gigante voltando le spalle ai Dursley, «buon compleanno! Ho una cosetta per te… mi sa che a un certo punto mi ci sono seduto sopra, ma il sapore sarà ancora buono».
Da una tasca intema del suo pastrano nero estrasse una scatola leggermente schiacciata. Harry l’aprì con dita tremanti. Dentro c’era una torta al cioccolato grossa e appiccicosa con su scritto, a lettere verdi di glassa: ‘Buon Compleanno Harry’.
Harry guardò il gigante. Voleva dirgli grazie, ma le parole si persero prima di arrivargli alle labbra, e quel che invece gli uscì fu: «Chi sei?»
Il gigante ridacchiò.
«Giusto, va’, non mi sono presentato. Rubeus Hagrid, Custode delle Chiavi e dei Luoghi a Hogwarts».
Tese una mano enorme e strinse tutto il braccio di Harry.
«Allora, ’sto tè?» disse poi sfregandosi le mani. «Be’, se c’è qualcosa di più forte non dico mica di no, si capisce».
Lo sguardo gli cadde sul focolare vuoto, a eccezione dei pacchetti di patatine accartocciati, e sbuffò. Si chinò sul caminetto; gli altri non potevano vedere quel che faceva, ma quando si ritrasse, un attimo dopo, il fuoco scoppiettava, illuminando l’umida catapecchia di un tremulo bagliore. Harry sentì il calore inondarlo come se si fosse immerso in un bagno caldo.
Il gigante tornò a sedersi sul divano che cedette sotto il suo peso e cominciò a tirare fuori dalle tasche del pastrano ogni sorta di oggetti: un bollitore di rame, un pacchetto di salsicce tutto molle, un attizzatoio, una teiera, alcune tazze sbeccate e una bottiglietta contenente un liquido color ambra da cui bevve una sorsata prima di cominciare a fare il tè. Ben presto la catapecchia fu piena dello sfrigolio e dell’odore di salsiccia. Nessuno disse una parola mentre il gigante si dava da fare, ma non appena ebbe fatto scivolare dall’attizzatoio le prime sei salsicce, grasse, succulente e leggermente abbrustolite, Dudley diede segni di irrequietezza. Zio Vernon gli disse in tono aspro: «Non toccare niente di quel che ti dà, Dudley!»
Il gigante ridacchiò beffardo.
«Non preoccuparti, Dursley, quel ciccione di tuo figlio non ha bisogno di ingrassare ancora».
E passò le salsicce a Harry: il ragazzo era talmente affamato che gli parve di non aver mai assaggiato niente di così squisito; intanto, non riusciva a togliere gli occhi di dosso al gigante. Infine, visto che nessuno si decideva a dare spiegazioni, disse: «Scusa, ma ancora non ho capito bene chi sei».
Il gigante bevve un sorso di tè e si asciugò la bocca col dorso della mano.
«Chiamami Hagrid» disse, «tutti mi chiamano così. E, come ti ho detto, sono il Custode delle Chiavi a Hogwarts. Naturalmente, saprai tutto di Hogwarts».
«Ehm… no» disse Harry.
Hagrid fece una faccia sbalordita.
«Mi spiace» si affrettò a dire Harry.
«Ti spiace a te?» abbaiò Hagrid voltandosi a guardare i Dursley che si ritrassero in un angolo buio. «È a loro che deve dispiacere! Sapevo che non ti davano le lettere, ma… che non sapevi niente di Hogwarts… diamine! Non ti sei mai chiesto dove i tuoi genitori avevano imparato tutto quel po’ po’ di roba che sapevano?»
«Tutto cosa?» chiese Harry.
«TUTTO COSA?!» tuonò Hagrid. «No, aspetta un attimo!»
Balzò in piedi. Arrabbiato com’era, sembrava riempire tutta la stanza. I Dursley erano appiattiti contro la parete.
«Devo capire» gli ringhiò in faccia, «che questo ragazzo - questo ragazzo! — non sa niente… di NIENTE?»
Questo, a Harry, sembrava un po’ troppo. Dopotutto, era andato a scuola e i suoi voti non erano poi tanto male.
«Alcune cose le so» disse. «So le tabelline e altre cose del genere».
Ma Hagrid fece un gesto impaziente con la mano e disse: «Del nostro mondo, dico. Del tuo mondo. Del mio mondo. Del mondo dei tuoi genitori».
«Quale mondo?»
Pareva che Hagrid stesse per esplodere.
«DURSLEY!» sbottò.
Zio Vernon, che si era fatto pallidissimo, biascicò qualcosa che suonò come un pio pio. Hagrid fissò Harry furibondo.
«Ma devi pur sapere di tua madre e tuo padre» disse. «Insomnia, sono famosi. Tu sei famoso».
«Come? Papà e mamma non erano famosi! 0 sì?»
«Tu non sai… non sai…» Hagrid si passò le dita tra i capelli, fissando Harry con uno sguardo incredulo.
«Tu non sai chi sei?» disse infine.
D’un tratto, zio Vernon ritrovò la voce.
«La smetta» gli intimò, «la smetta immediatamente! Le proibisco di dire qualsiasi cosa al ragazzo!»
Anche un uomo più coraggioso di Vernon Dursley avrebbe tremato di paura allo sguardo furibondo che Hagrid gli lanciò. Quando il gigante parlò, ogni sillaba fu uno scoppio di rabbia.
«Non glielo hai mai detto? Non gli hai mai detto che cosa c’era scritto nella lettera che Silente gli ha appiccicato addosso? Guarda che io c’ero. Ho visto Silente che lo faceva, Dursley! E gliel’hai tenuta nascosta per tutti questi anni?»
«Che cosa mi ha tenuto nascosto?» chiese Harry avido di sapere.
«BASTA! GLIELO PROIBISCO!» gridò zio Vernon in preda al panico.
Zia Petunia emise un rantolo d’orrore.
«Oh, andate a quel paese, voi due!» disse Hagrid. «Harry… tu sei un mago».
Nella catapecchia piombò il silenzio. Si sentiva solo il frangersi delle onde e l’ululato del vento.
«Che cosa sono, io?» chiese Harry senza fiato.
«Un mago, chiaro?» disse Hagrid tornando a sedersi sul divano che gemette e si affossò ancora di più. «Anzi, un mago coi fiocchi, direi, una volta che avrai studiato un pochette. Con un papà e una mamma come i tuoi, che cos’altro poteva venir fuori? Penso proprio che è venuto il momento di leggere quella lettera».
Harry allungò la mano per prendere finalmente la busta giallastra, scritta con l’inchiostro verde smeraldo, indirizzata al Signor H. Potter, Piano terra, Catapecchia sullo scoglio, Mare. Tirò fuori la lettera e lesse:
SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Preside: Albus Silente
(Ordine di Merlino, Prima Classe, Grande Mago, Stregone Capo, Supremo Pezzo Grosso, Confed. Internaz. dei Maghi)
Caro signor Potter,
siamo lieti di informarLa che Lei ha diritto a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Qui accluso troverà l’elenco di tutti i libri di testo e delle attrezzature necessarie.
Vanno scolastico avrà inizio il 1° settembre. Restiamo in attesa del Suo gufo entro e non oltre il 31 luglio p.v.
Distinti saluti,
Minerva McGonagall
Vicepreside
Harry sentì una ridda di domande che gli esplodeva nella testa come un fuoco d’artificio, ma non riusciva a decidere da quale cominciare. Dopo alcuni minuti balbettò: «Che cosa significa che aspettano il mio gufo?»
«Per mille Gorgoni! L’avevo dimenticato» disse Hagrid battendosi una mano sulla fronte così forte che avrebbe mandato a zampe all’aria un cavallo da tiro, e dall’ennesima tasca interna del pastrano estrasse un gufo — un gufo in carne e ossa, con le penne tutte arruffate — una lunga penna d’oca e un rotolo di pergamena. Con la lingua tra i denti per lo sforzo, buttò giù un biglietto che Harry riuscì a leggere all’incontrario:
Caro professor Silente,
dato la lettera a Harry. Domani lo porto a comprare la roba che gli serve.
C’è un tempo orrendo qui. Spero che Lei sta bene.
Hagrid
Poi arrotolò la pergamena, la porse al gufo che l’afferrò col becco, si diresse verso la porta e lanciò il volatile nella bufera. Quindi tornò indietro e si sedette come se tutta quella faccenda fosse normale come fare una telefonata.
Harry, rendendosi conto che aveva la bocca aperta per lo stupore, si affrettò a richiuderla.
«Dove ero arrivato?» riprese Hagrid, ma in quello stesso momento zio Vernon, ancora terreo in volto ma con espressione molto arrabbiata, si avvicinò al fuoco.
«Non ci andrà» disse.
Hagrid grugnì.
«Vorrei proprio vedere un Babbano come te che ferma Harry» disse.
«Un che cosa?» chiese Harry interessato.
«Un Babbano» disse Hagrid. «È così che chiamiamo le persone senza poteri magici, come loro. E per tua sfortuna sei cresciuto nella famiglia dei peggio Babbani che ho mai visto».
«Quando lo abbiamo preso, abbiamo giurato di farla finita con tutte queste stupidaggini» disse zio Vernon, «che gliel’avremmo fatta passare, con le buone o con le cattive. Un mago! Figuriamoci!»
«Lo sapevate?» esclamò Harry. «Voi sapevate che io sono un mago?»
«Se lo sapevamo!» strillò zia Petunia. «Certo che sapevamo! Come avresti potuto sfuggire a questa dannazione, visto che tipo era mia sorella? Ricevette una lettera proprio come la tua e sparì, inghiottita in quella… in quella scuola… e ogni volta che tornava a casa per le vacanze, aveva le tasche piene di uova di rana, e trasformava le tazze da tè in topi. Io ero l’unica che la vedeva per quello che era: una balorda! Ma per mio padre e mia madre, no! Loro… Lily di qua, Lily di là! Erano tutti fieri di avere una strega in famiglia!»
Si interruppe per riprendere fiato e poi ricominciò a sbraitare. Sembrava che avesse atteso per anni il momento di sputar fuori tutto.
«Poi, a scuola conobbe quel Potter. Se ne andarono insieme, si sposarono e nascesti tu, e naturalmente sapevo benissimo che tu saresti stato identico a loro, altrettanto strampalato, altrettanto… balordo… e poi, se permetti, hanno avuto la bella idea di saltare in aria, ed ecco che tu ci sei piombato tra capo e collo!»
Harry era sbiancato. Non appena ebbe ritrovato la voce disse: «Saltati in aria? Mi avete detto che erano morti in un incidente d’auto».
«INCIDENTE D’AUTO?» tuonò Hagrid saltando su così infuriato che i Dursley corsero a rintanarsi nel loro cantone. «Come potevano Lily e James Potter morire in un incidente d’auto? È pazzesco! È uno scandalo che Harry Potter non sa la sua storia, quando non c’è marmocchio nel nostro mondo che non conosce il suo nome!»
«Ma perché? Che cosa è successo?» chiese Harry impaziente.
L’ira svanì dal viso di Hagrid. D’un tratto parve preoccupato.
«Proprio non me lo aspettavo» disse con voce bassa e angustiata. «Quando Silente mi ha detto che potevo avere qualche problema a portarti via, non avevo idea di quanto tu non sapevi. Oh, Harry, non so mica se sono la persona giusta per dirtelo… ma qualcuno deve: non puoi andare a Hogwarts senza sapere».
Lanciò un’occhiataccia ai Dursley.
«Be’, è meglio che sai quel che posso dirti io… però non posso raccontarti tutto, perché è un gran mistero, un bel po’ grande, sì».
Si sedette, fissò per alcuni istanti il fuoco e poi disse: «Credo che tutto è iniziato con… con una persona di nome… È incredibile che tu non sai come si chiama: tutti, nel nostro mondo, lo sanno…»
«Chi?»
«Be’, preferisco non dire il nome, se posso. Tutti preferiscono, tutti».
«E perché?»
«Per tutti i gargoyle, Harry, la gente ha ancora una fifa nera. Miseriaccia, quant’è difficile! Vedi, c’era questo mago che poi ha… ha preso la via del male. Tutto il male che riesci a immaginare. Il peggio. Il peggio del peggio. Il suo nome era…»
Hagrid prese fiato ma non gli uscì una parola di bocca.
«Puoi scriverlo?»
«No, non so scriverlo. E va bene: Voldemort» Hagrid rabbrividì, «ma non farmelo ripetere. Insomma, circa vent’anni fa, questo mago cominciò a cercare seguaci. E li trovò, pure. Qualcuno lo seguì per paura, altri perché volevano una briciola del suo potere: perché lui, di potere, ne stava conquistando parecchio. Tempi bui, Harry. Non sapevi di chi fidarti, non potevi metterti a fare amicizia con maghi e streghe sconosciuti… Sono successe cose terribili. Lui stava prendendo il sopravvento. Chiaro, qualcuno cercò di fermarlo… e lui lo uccise. In modo orribile. Uno dei pochi posti rimasti ancora sicuri era Hogwarts. Credo che Silente è il solo di cui Tu-Sai-Chi aveva paura. Non ha osato impadronirsi della scuola, in ogni caso non allora.
«Ora, tua mamma e tuo papà erano i migliori maghi che ho mai conosciuto. Ai loro tempi erano Capiscuola a Hogwarts. Il mistero è perché Tu-Sai-Chi non aveva mai cercato di tirarli dalla sua parte prima… Forse sapeva che erano troppo vicini a Silente e non volevano avere niente a che fare con il Lato Oscuro.
«Forse pensava di riuscire a convincerli… forse voleva soltanto che si levavano dai piedi. Tutto quel che si sa è che dieci anni fa, il giorno di Halloween, spuntò nel villaggio dove abitavate voi. Tu avevi solo un anno. Lui entrò in casa e… e…»
D’un tratto Hagrid tirò fuori un fazzoletto a pallini tutto sporco e si soffiò il naso con il fragore di una sirena da nebbia.
«Chiedo scusa» disse, «ma è così triste… conoscevo la tua mamma e il tuo papà… le persone più carine che si possono immaginare… Ma insomma…
«Tu-Sai-Chi li uccise. E poi — e questa è la cosa veramente misteriosa — cercò di uccidere anche te. Chissà, voleva fare piazza pulita, o forse a quel tempo ammazzava solo per il gusto di farlo. Ma non ci riuscì. Ti sei mai chiesto come hai quella cicatrice sulla fronte? Non è una ferita qualsiasi. Quello è il segno che ti rimane quando vieni colpito da una maledizione potente: non ha risparmiato tua mamma e tuo papà, e neanche la casa, ma su di te non ha funzionato, e questo è il motivo per cui sei famoso, Harry. Nessuno di quelli che lui aveva deciso di uccidere l’ha fatta franca, nessuno, solo tu. E guarda che ha ucciso maghi e streghe fra i migliori del suo tempo: i McKinnon, i Bones, i Prewett; e tu, che eri soltanto un piccoletto, ce l’hai fatta».
In quel momento Harry ricordò qualcosa di molto doloroso. Mentre il racconto di Hagrid si avviava alla conclusione, rivide il bagliore accecante di luce verde più chiaramente di quanto non fosse mai accaduto prima; poi, gli tornò in mente anche qualche cos’altro, per la prima volta in vita sua: una risata lunga, fredda, crudele.
Hagrid lo guardava pieno di tristezza.
«Ti ho raccolto tra le macerie della casa con le mie mani, su ordine di Silente. E ti ho portato da questi qua».
«Tutte balle!» esclamò zio Vernon. Harry ebbe un soprassalto: aveva quasi dimenticato la presenza dei Dursley. Zio Vernon aveva tutta l’aria di aver recuperato il coraggio. Fissava Hagrid con odio e teneva i pugni serrati.
«E ora, sta’ a sentire, ragazzo» disse in tono adirato. «Ammetto che in te ci sia qualcosa di strano, probabilmente nulla che non sarebbe guarito con una bella sculacciata… Ma quanto a tutte queste storie sui tuoi genitori… è vero, erano strampalati, inutile negarlo, e a mio parere il mondo sta molto meglio senza di loro. Quel che gli è capitato se lo sono cercato, a forza di frequentare tutti quei maghi… È accaduto proprio quel che avevo previsto; ho sempre saputo che avrebbero fatto una brutta fine».
Ma in quel preciso istante, Hagrid balzò in piedi ed estrasse da sotto il pastrano un ombrello rosa malconcio. Puntandolo contro zio Vernon come una spada, disse: «Ti avverto, Dursley… ti avverto: un’altra parola e…»
All’idea di finire infilzato sul puntale di un ombrello da un gigante barbuto, il coraggio di zio Vernon venne meno un’altra volta. Si appiattì contro la parete e rimase in silenzio.
«Così va meglio» fece Hagrid col respiro affannoso, e si sedette di nuovo sul divano, che questa volta cedette definitivamente fino a toccare terra.
Intanto, Harry aveva un sacco di domande da fare: anzi, centinaia.
«Ma che ne è stato di Voi… ehm, scusa, di Tu-Sai-Chi?»
«Buona domanda, Harry. Scomparso. Sparito nel nulla. La notte stessa che cercò di ucciderti. E questo ti ha reso ancor più famoso. Questo è il mistero dei misteri, vedi… Lui stava diventando sempre più potente. Perché sparire?
«Alcuni dicono che è morto. Balle, secondo me. Non so se dentro aveva ancora qualcosa di abbastanza umano che poteva morire. Altri dicono che è ancora lì che aspetta il momento buono, ma io non ci credo. Gente che stava dalla sua parte è tornata dalla nostra. Alcuni sembrava che uscivano da una trance. Non credo che potevano farlo se lui tornava.
«I più di noi credono che è ancora là fuori da qualche parte, ma che ha perso i suoi poteri, che è troppo debole per andare avanti. Perché qualcosa di te, Harry, lo ha fermato. È successo qualcosa, quella notte, che lui non aveva pensato… Io non so che cosa, nessuno lo sa… ma c’è qualche cosa, in te, che lo ha messo k.o.».
Hagrid guardava Harry e nei suoi occhi brillavano calore e rispetto; Harry, dal canto suo, anziché sentirsi compiaciuto e orgoglioso, era abbastanza sicuro che ci fosse un terribile errore. Un mago? Lui? Com’era possibile? Aveva passato una vita a farsi picchiare da Dudley e tormentare da zia Petunia e da zio Vernon; se fosse stato veramente un mago, perché non si erano trasformati in rospi verrucosi ogni volta che avevano cercato di rinchiuderlo nel ripostiglio? Se una volta aveva sconfitto il più grande stregone del mondo, come mai Dudley lo aveva sempre preso a calci come un pallone?
«Hagrid» disse tranquillamente, «credo che ti sia sbagliato. Secondo me è impossibile che io sia un mago».
Con sua grande sorpresa, Hagrid ridacchiò.
«Non sei un mago, eh? Senti un po’: non ti capita mai di far succedere qualcosa, quando ti spaventano o ti fanno arrabbiare?»
Harry fissò il fuoco. Ora che ci pensava… le cose strane che mandavano gli zii su tutte le furie erano sempre accadute quando lui, Harry, era turbato o arrabbiato… Quando era inseguito dalla ghenga di Dudley, chissà come, si ritrovava sempre fuori tiro… Quando il pensiero di andare a scuola con quel ridicolo taglio di capelli l’aveva spaventato era riuscito a farseli ricrescere… E poi, l’ultima volta che Dudley lo aveva picchiato non si era forse preso la rivincita, senza neanche rendersene conto? Non gli aveva aizzato contro un boa constrictor?
Harry tornò a guardare Hagrid con un sorriso e si accorse che il gigante lo ricambiava apertamente.
«Visto?» disse Hagrid. «Harry Potter non è un mago, eh? Aspetta e vedrai: presto sarai famoso, a Hogwarts!»
Ma zio Vernon non era intenzionato a cedere senza dar battaglia.
«Mi pareva di averle detto che il ragazzo non ci va, in quel posto» sibilò. «Andrà a Stonewall e dovrà anche ringraziarci. Ho letto tutte quelle lettere in cui chiedono un mucchio di stupidaggini… libri di incantesimi, bacchette magiche…»
«Se lui vuole andarsene, neanche un grosso Babbano come te riuscirà a fermarlo» ringhiò Hagrid. «Impedire al figlio di Lily e James Potter di andare a Hogwarts! Roba da pazzi! È iscritto da quando è nato. Frequenterà la migliore scuola di magia e stregoneria del mondo. Sette anni laggiù e non si riconoscerà più neanche lui. Starà insieme a giovani come lui, una volta tanto, sotto il più grande preside che Hogwarts ha mai avuto, Albus Silen…»
«IO NON INTENDO PAGARE PERCHÉ UN VECCHIO PAZZO STRAVAGANTE GLI INSEGNI QUALCHE TRUCCHETTO!» urlò zio Vernon.
Ma aveva superato il limite. Hagrid afferrò l’ombrello e lo fece roteare sopra la testa. «MAI…» tuonò, «INSULTARE - ALBUS - SILENTE - DAVANTI - A - ME!»
Sferzando l’aria con l’ombrello, lo puntò contro Dudley: ci fu un bagliore di luce violetta, uno scoppio come di petardo e un acuto squittio. Un attimo dopo, Dudley saltellava sul posto con le mani serrate sul grosso deretano, ululando di dolore. Quando volse loro le spalle, Harry vide un codino arricciato da maiale che gli spuntava da un buco nei pantaloni.
Zio Vernon emise un ruggito. Spinti zia Petunia e Dudley nella stanza accanto, gettò un ultimo sguardo terrorizzato a Hagrid e si sbatté la porta alle spalle.
Hagrid guardò l’ombrello e si accarezzò la barba.
«Non dovevo dar di matto» disse con aria dolente. «Ma tanto, non ha funzionato. Volevo trasformarlo in un maiale, ma gli assomiglia già così tanto che non c’era molto altro da fare».
Gettò uno sguardo in tralice a Harry da sotto le sopracciglia cespugliose.
«Che non ti scappi con nessuno, a Hogwarts, eh?» disse. «Ehm… vedi, secondo la regola, io non devo fare magie. Mi è stato permesso di fame qualcuna, ma solo per seguire te e per portarti le lettere e roba del genere… e questa era una delle ragioni per cui desideravo tanto questa missione».
«Perché non ti è permesso fare magie?» chiese Harry.
«Oh, be’, sai… anch’io una volta andavo a scuola a Hogwarts, ma… ehm… per dirla tutta, sono stato espulso. Al terzo anno. Mi hanno spezzato la bacchetta a metà, eccetera eccetera. Ma Silente mi ha permesso di rimanere come guardacaccia. Grand’uomo, Silente!»
«E perché sei stato espulso?»